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Che cosa succede davvero tra Fs, Tesoro, Atlantia, Delta e Lufthansa su Alitalia. Analisi

L'uscita di Atlantia. La retromarcia di Fs. Le capriole del Mise. L'atarassia del Mef. Mosse e bluff tra Delta e Lufthansa. Il caso Alitalia analizzato da Paolo Rubino e Salvatore Santangelo

 

I più importanti editorialisti nazionali hanno atteso la data odierna del 21 novembre 2019 per il loro fondamentale contributo euristico nella vicenda di Alitalia. E hanno scoperto che Fs fa un passo indietro nel guidare la cordata dei salvatori; che Atlantia, aggregatasi a quella cordata nel finale di partita non avendo avuto realmente alcuna chance di contribuire a definirne obiettivi e strategie, collega il suo impegno ad obiettivi propri estranei al progetto. Che Delta o Lufthansa considerano il ritorno del gettone da 100 milioni, contribuzione in conto capitale o in conto costi commerciali poco importa, collegato ad obiettivi propri di dominanza nordatlantica sostanzialmente divergenti da quelli della compagnia nazionale. Infine che il Mef, assediato da ogni parte, Italia e Ue, con richieste partigiane, privo di una visione industriale che, effettivamente, non compete a quel ministero ma eventualmente al Mise, mostra il “braccino corto” non considerando Alitalia una priorità dato il suo obiettivo fondamentale di equilibrio delle finanze nazionali. A cui certo nel breve, come ogni altra crisi d’azienda, non fornirebbe un contributo positivo.

CHE COSA HA DECISO FS SU ALITALIA

Il consiglio d’amministrazione di Fs ha deliberato che non sussistono, eufemisticamente “al momento”, le condizioni per rilevare Alitalia dalla gestione straordinaria. Sorpresa, sorpresa! Fs, trascinata a suo tempo per i capelli (sic!) nell’impresa del salvataggio da una quantomeno ingenua strategia dell’intermodalità dettata da un Mise insipiente, oggi, calata la pressione di quel ministero, fa il passo del gambero. Ebbene, l’intermodalità è una strategia cruciale per il futuro del Paese, ma non tocca certo a un vettore ferroviario assumersene la responsabilità.

IL DOSSIER INTEROPERABILITA’

Bisogna capire il significato della parola intermodalità oltre il suono immaginifico che essa produce negli ascoltatori distratti. L’intermodalità è un tema infrastrutturale, tipicamente di sistema e non di una singola azienda. Se proprio si volesse rintracciare nel gruppo FS l’attuatore dell’intermodalità nazionale, allora in quel gruppo bisogna guardare a RFI piuttosto che Trenitalia. E, per questo ruolo, non ha alcun senso entrare nel capitale di Alitalia, anzi forse starne fuori sarebbe di gran lunga meglio per ognuno. Ma si sa, a tutti piace occuparsi della disciplina leggera del marketing, a pochi del duro lavoro infrastrutturale, assai poco glamour ai fini della comunicazione.

COME NON SI MUOVONO DELTA E LUFTHANSA

Delta e/o Lufthansa non si smuovono dalle loro posizioni. E perché mai dovrebbero. 100 milioni di euro è la giusta spesa per i loro soggettivi fini strategici. Recuperare tale importo in termini di redditività aggiuntiva per loro nel teatro nordatlantico richiede un tempo lungo e una fatica notevole che nessun analista finanziario, da cui dipende il rating di quelle due compagnie, riterrebbe accettabile se la cifra messa in gioco andasse oltre quel limite. E gli analisti finanziari sono la suprema corte per ogni società quotata.

LE CASSE DI ALITALIA

Ma la funzione euristica degli editorialisti nazionali – cui compete la cruciale responsabilità di contribuire alla formazione della pubblica opinione – stimolata dagli incontri salottieri con i grandi esperti di affari economici e industriali, ovvero le multinazionali della consulenza, non si limita alla scoperta del 21 novembre 2019. Riprende con rinnovato vigore il tema più caro che assicura l’immediato applauso dell’opinione pubblica nazionale, stanca, distratta e avvilita da una crisi economica infinita di cui fatica a comprenderne le cause, per la quale non vede rimedi all’orizzonte aspettando infantilmente il taumaturgo che con demiurgico incantesimo la risolva. Ed è il tema degli sprechi del pubblico danaro affluito come un impetuoso torrente nelle casse sfondate di Alitalia a danno di ogni altro soggetto, pubblico e privato, nazionale. La cifra data in pasto all’affamato pubblico nazionale, desideroso di sensazionalismi a dosaggio crescente che ne plachino l’assuefazione all’iperbole, non è sempre la stessa, ma poco importa. Ciò che preme è che sia immaginifica, scandalosa, facilmente declinabile da chiunque negli uggiosi bar dell’amaro caffè mattutino pre lavoro, negli olezzosi vagoni delle metropolitane, nei salotti mediatici dei talk show serali. Gli inutili tentativi di pochi di chiarire il tema del danaro affluito nei decenni nelle tasche di Alitalia non “bucano lo schermo”.

SOLDI E SPRECHI

Per chi avesse interesse a guardare oltre il vestito, tuttavia, ricordiamo due fatti concreti. Dapprima, che tra le somme monstre di cui ognuno parla, i “nove miliardi di spreco”, si considerano tutti gli aumenti di capitale e finanziamenti fatti dall’azionista per la società di cui era proprietario dal 1975 ad oggi. E nessun commentatore sembra voler fare la fatica di scoprire, a proposito di funzione euristica, che, almeno fino al 1991, quella somma è servita al vettore per acquistare ben 184 aeroplani tra medio e lungo raggio per un valore attualizzato di circa sei miliardi di dollari. Cosa vi sia di strano e dissipatorio se la proprietà di un’azienda finanzia con il proprio capitale l’acquisizione dei ‘macchinari industriali’ necessari alla produzione, ossia aeroplani per un vettore aereo, resta un mistero.

I BILANCI DI ALITALIA

D’altronde, se ancora nel 1993 i bilanci Alitalia mostravano andamenti meno critici rispetto ai concorrenti europei che sfruttavano in quegli anni l’impatto mediatico della prima guerra del Golfo per scaricare enormi perdite, anche a futura memoria, vuol dire che il capitale – pubblico – investito precedentemente generava un ritorno di qualità. E per quanto riguarda i circa 4 miliardi pervenuti ad Alitalia tra il ‘97 e il 2005, ancora nessuno vuol fare la fatica di scoprire che quei fondi, assoggettato ai vincoli Ue che ne impedivano l’impiego in sviluppo, arrivati tardi e a babbo morto, sono serviti a ridurre debiti, incentivare esodi e coprire successive perdite correnti conseguenza dei tagli di offerta. Dal 2009 in avanti tutto peggiora visto che i privati, svincolati dal giogo Ue, non avevano ostacoli per attuare una vera politica di sviluppo. Ma i privati, comprese le compagnie straniere invitate al banchetto, hanno spolpato l’osso e lasciato le spoglie nelle mani pubbliche. Nulla di diverso da ciò che è accaduto in tutti i settori della grande industria nazionale, privata e pubblica, dalla fine degli anni ’90 in avanti.

Il 21 novembre 2019 due patate bollenti di dimensioni enormi sono nelle mani degli italiani. E la decisione non può che spettare a quest’ultimi. Lasciamo acciaio e trasporti italiani al destino della scomparsa oppure ce ne facciamo carico in una logica orientata al futuro? Non spetta a editorialisti e commentatori decidere, e nemmeno la vanitosa e miope politica contemporanea sembra in grado di farlo. Ma almeno completezza e profondità delle opinioni in campo dovrebbero essere garantite da questa classe dirigente.

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