Prof. Andreoli trovo che sovente cadiamo nell’errore di cercare intorno a noi, nei beni materiali e nel desiderio del loro possesso lo scopo dell’esistenza, eludendo interrogativi profondi che riguardano invece il senso della vita anche nei suoi aspetti reconditi: le relazioni con gli altri, la fatica che accompagna ogni conquista, il dovere della responsabilità, fino al sacrificio e al dolore. Quali consapevolezze dobbiamo recuperare per nobilitare il nostro essere qui, nel mondo?
Vede, dottor Provinciali, io credo che ci siano momenti in cui forse devono prevalere la gioia, il gioco, la curiosità: insomma c’è anche un tempo per evadere, sono convinto che ci siano occasioni in cui il tempo diventa gradevole per l’esistenza e per l’uomo. Ci sono però situazioni di vita diverse in cui questi aspetti positivi non sono possibili perché bisogna passare dal ‘particulare’ – per usare un’espressione di Vico – al generale e quindi viene un tempo in cui è necessario dedicarsi alla ricerca del significato che ha l’uomo nel mondo e quindi reciprocamente al significato del mondo per l’uomo. In questo consiste la scoperta continua del senso della vita. Mi pare che noi dovremmo “essere dentro” questo tempo, per un motivo molto semplice: viviamo in epoca di crisi. Ora lei sa che ci sono crisi individuali che fanno parte dell’esistenza: ci sono conflitti in una parte che consideriamo positiva e altri che vanno affrontati e risolti. Fino a qualche tempo fa noi consideravamo tutti i conflitti da curare, da risolvere, questa era la lezione appresa da Freud e a lungo mantenuta. Oggi c’è una crisi dell’esistenza per ciascuno di noi: la fatica di vivere, le difficoltà che ci riguardano individualmente. Però ci sono crisi che non possiamo fingere che non esistano, eludendole, perché storicamente si caratterizzano per la loro periodicità: in passato abbiamo avuto due grandi crisi economiche, quella del 1873 – dopo la grande guerra franco-prussiana – e quella del 1929. La prima fu definita del ‘panico’, quella del 1929 della ‘depressione’: l’economia non funzionava e furono usati per descriverle due termini propri della psichiatria. Alla luce di quelle esperienze possiamo dire che oggi c’è una grande crisi economica la cui causa origina certamente dal contesto finanziario mondiale, dal crollo dei subprime in USA nel 2006 ma che ha poi subito l’enorme rallentamento dovuto alla pandemia, ed è la prima volta che accade in epoca moderna.
Questa mia premessa – rispetto alla sua domanda – vuole portare a questa conclusione: oggi è finito il tempo del giocare per capire chi siamo, perché se noi affrontiamo i singoli problemi e i bisogni individuali e specifici non arriveremo mai fuori dalla crisi epocale generale che riguarda il mondo. Oggi a me pare che il problema che noi abbiamo finora vissuto come tensione – essendo passati per lungo tempo da quella che Darwin chiamava ‘lotta per la sopravvivenza’, che è centrata sull’alimentazione, sulla difesa del territorio e sulla procreazione per far continuare la specie – riguardava il tema della ‘qualità della vita’ che ha un senso infinito e indefinibile, un mondo aperto dello stare sempre bene.
Ora che cosa sta succedendo: che stiamo regredendo dalla qualità della vita alla sopravvivenza, la crisi significa perciò tornare indietro, ai bisogni di un tempo. Alcuni fanno finta che non ci sia la crisi mentre c’è qualcuno che sta male, non ha un posto di lavoro, le banche non gli fanno credito, non arriva a fine mese, non riesce a far fronte agli aumenti dei costi dell’energia, alle bollette da pagare, conseguenze anche della guerra in atto.
In questo contesto esistenziale di crisi e incertezze che Lei descrive possiamo considerare il tema della solitudine, che è come un caleidoscopio di sentimenti: c’è quella cercata per ritrovare sé stessi, quella subita che può darci un senso di distacco e umiliazione, quella di chi è marginalizzato e avverte un vuoto di inadeguatezza e incomprensione. Questo stato d’animo, che ha ispirato poeti e artisti, mi pare accentuato negativamente in questa epoca di facilitazione della comunicazione – e questo è un paradosso – anche attraverso l’uso delle tecnologie. Rischiamo di essere fagocitati dai media e di perderci nella babele delle parole e dei luoghi comuni?
La questione posta è interessante e contiene molti spunti: mi permetta di esordire con una riflessione.
Il problema è di entrare nel merito: ‘chi è l’uomo’. Se noi vogliamo l’uomo ‘aumentato’, dandogli la possibilità di vedere in tre dimensioni, di ascoltare i suoni che abitualmente non avvertiamo, di leggere attraverso gli infrarossi dobbiamo allora chiederci: perché lo vogliamo così? Se la risposta è ‘non ci va bene questo mondo’: potrebbe essere questa la risposta. Lei in un suo recente scritto ha approfondito bene e con prudenza il tema del Metaverso: io in linea di principio sono terrorizzato dal Metaverso, ho accettato di andare a fare una relazione ad un convegno ma ho chiesto un anno di tempo per approfondire. Vogliamo l’uomo aumentato? Un po’ lo abbiamo sempre cercato e voluto tale: lei pensi al tema della sessualità, senza il quale noi psichiatri moriremmo di fame….
Adesso si tratta di capire che se noi vogliamo l’uomo aumentato ciò significa che quello attuale non ci piace.
Lo vorremmo con un occhio dietro il collo per vedere cosa succede alle sue spalle? Con tre gambe?
Allora non ci piace neanche il mondo e per questo inventiamo il Metaverso che è un mondo che non c’è, che noi costruiamo perché vogliamo investire denaro, perché l’economia fa soldi anche nel virtuale.
L’uomo di natura non ci piace, il mondo com’è neanche: qui il problema è di porsi il perché non ci piace più né l’uomo né il mondo. Si tratta del preludio di una piccola apocalisse: emerge il tema della ‘distruttività’, la condizione in cui non piacendomi ciò che c’è io spacco tutto, distruggo tutto e vado nel Metaverso.
Dove ci può portare questa fuga? A mio parere questo genera la schizofrenia, la dissociazione.
Io ho vissuto sessant’anni curando la schizofrenia e la dissociazione. Forse non ci sono riuscito? Il fatto che si vada nel Metaverso con il proprio avatar conferma ciò che la psichiatria da tempo ha scoperto: ci sono in noi due “io”. Se io mando nel Metaverso il mio avatar vuol dire che mi sto sdoppiando e devo curare questa dissociazione identitaria.
La ringrazio per la benevola considerazione del mio scritto ma qui Lei pone adesso una questione cruciale. Io ho parlato del pericolo di processi irreversibili: il problema non è solo “andare” ma anche riuscire a tornare essendo sempre sé stessi, Professore. La Sua puntualizzazione è davvero fondamentale….
Qui il problema è: vogliamo chiederci, seduti ad un tavolo, con qualche filosofo che pensa e non parla solo alla televisione, dal punto di vista della storia antropologica “dove stiamo andando, dove ‘vogliamo’ andare”? Perché è vero che stiamo costruendo il Metaverso ma è altrettanto vero che stiamo distruggendo questo mondo. Ne ha parlato anche lei nei suoi articoli: la sostenibilità ambientale, il massacro della natura, delle specie animali, il CO2, l’ecosostenibilità, l’invasione soffocante della plastica e dei manufatti…
A cosa servono le ricerche ONU e le raccomandazioni dei COP annuali? Vado nel Metaverso, non mi piace il mondo, non mi piaccio io stesso, gli adolescenti non si accettano come sono e vogliono fare la chirurgia estetica. Un tempo si insegnavano una serie di cose che forse sono banali: l’educazione, il rispetto, il buon gusto, la pazienza, l’attesa. Lei conosce qualcuno che aspetta qualcosa? Non credo: tutti vogliono tutto e subito. Lei credo che sia d’accordo che educare significa insegnare a vivere… Non posso dire a un ragazzo che ha il telefonino in tasca che deve lasciarlo quando entra a scuola: se mai devo insegnargli ad usarlo con misura.
Peccato che la filosofia non ci sia più… nelle scuole c’è ma nella vita è dimenticata. Il tema è la vita o la morte. In questo mondo si continua a vivere, nella virtualità si crepa, questo è il problema.
Lei caro Professore riesce a proporre e introdurre argomentazioni sempre essenziali e dirimenti. Avrei voluto sottoporle il tema della necessità di risalire all’archetipo umano, al genotipo umano, al senso dell’esistere. Accenno solo un aspetto che mi sta a cuore… Perché è più facile che saggezza, armonia e senso della giustizia abitino l’anima di persone semplici piuttosto che l’intelletto di persone colte ma precluse al dialogo? Albert Einstein risponderebbe che la saggezza non è un prodotto dell’istruzione ma è il risultato del tentativo di acquisirla, tentativo che dura tutta la vita. L’errore del presuntuoso consiste dunque nel pre-giudizio che altro non è che una forma di violenza sulla realtà, una sua indebita distorsione?
Bellissima anche questa domanda, ma vede che torniamo sempre al punto di partenza. Il quesito che lei mi pone riguarda il tema della verità. La nostra società occidentale ha sempre vissuto sulla verità, delle religioni, della fede, della ragione ecc. In questo momento storico tuttavia non ha senso parlare di verità, al punto che la stessa scienza, anche ad alto livello, viene messa in discussione. Quello che i saggi hanno sempre detto è che la verità è un sogno che bisogna seguire nella consapevolezza di non poterla raggiungere mai. Il mistero non è una domanda ma è una risposta. Significa che ci sono cose a cui la nostra intelligenza non sa dare spiegazioni. Se io devo credere che “con la mia mente capisco la mente” ciò sarebbe un anacoluto: il mio cervello elabora congetture sul mondo in cui mi trovo ma con dei limiti che devo saper accettare.
Il presuntuoso è dunque solo un ignorante. E’ stato scritto un libro sugli ultimi tre anni di vita del Cardinale Martini, una mente eccelsa piena di dubbi, ho parlato anche con il sacerdote che lo seguiva come assistente: questa è la condizione umana. L’uomo non potrà mai dare una risposta assoluta perché lo strumento che noi usiamo per pensare dovrebbe essere prima conosciuto per cosa dà. Ecco perché dico che bisogna partire dal basso, dai “nessuno” con la N maiuscola, che forse ci danno un po’ di quella saggezza a cui lei ha fatto cenno.
Bella citazione, caro Professore. Confermo la Sua impressione sul Cardinale Martini: lo avevo intervistato proprio in quel periodo che Lei richiama e mi aveva detto queste parole, che ho riportato in un articolo che vorrei pubblicare: “Francamente se dovessi dire alla fine della mia vita qual è il fondamento razionale della preghiera, non saprei dirlo. Prego perché Gesù ha pregato, prego perché il Signore ci invita alla preghiera, prego perché la preghiera è un mistero che ragionevolmente non sembra spiegabile”.
Ecco che ritorna il mistero come ciò che vorrei sapere ma non so: è una risposta, come ho detto.
Con la testa che hai caro uomo, tu hai determinate occasioni di conoscenza. Tutto deve servire a cercare di affrontare i piccoli bisogni della via. Mi creda, la gente sta malissimo, ha paura e anche i violenti e coloro che fanno finta che non c’è niente stanno male. Ricordo l’esempio del Titanic, quelli che morirono tutti e per ultimi erano gli orchestrali, perché la gente in quella situazione chiedeva la musica. C’è ancora chi nega la Shoah, è una forma di difesa che comprendo, io non condanno mai nessuno, perché è una cosa inaccettabile a pensarsi. La gente sta davvero male mi creda. Io sto vedendo gente che soffre moltissimo ma fa finta di non avere niente, che cerca di nascondere la situazione in cui si trova, recita perché pensa che domani la crisi passerà e ritornerà ad avere ciò che non ha più. Dalla ricerca della qualità della vita, come ho detto, si torna alla sopravvivenza. E mentre è facile proporre nuovi acquisti, tornare indietro è drammatico.
La crisi determina situazioni tragiche.
Verissimo, caro Professore. Ricordo che in un Rapporto CENSIS di diversi anni fa si citava l’espressione “sontuosità iperacquisitiva” come descrizione di una tendenza anche mentale al possesso dei beni e al loro consumo. Il Presidente Giuseppe De Rita è un maestro nel leggere e interpretare le derive macro-sociali.
Vede, in questa regressione economica c’è una sorta di atteggiamento condiviso per affrontarla, una difesa.
Bisogna anche vedere qual è la condizione umana, direi la ‘disposizione’ che biologicamente c’è, a dare un senso alla vita, comunque. Se la vita vale solo quando la qualità è alta ciò significa che siamo alla fine.
Le crisi che ho ricordato sono durate anni: le crisi economiche per risolversi hanno bisogno di ripresa, di denaro, di posti di lavoro, non c’è nessuno che abbia la bacchetta magica. Bisogna che ci chiediamo, ci interroghiamo sul significato della vita umana, dobbiamo essere più umili, umili, umili.
Ecco perché non sopporto i siparietti televisivi che non risolvono niente. Qui la soluzione è dentro l’uomo.
Il tema della violenza – fisica ma anche simbolica – è ricorrente nei fatti di cronaca specie in danno dei più fragili. Ricordo ciò che Lei mi disse un giorno: “Se vuoi capire la violenza devi prima sapere che cos’è la paura”. Può approfondire il senso di questo messaggio sul quale mi sono interrogato spesso ma senza sapermi dare una risposta? Dal punto di vista psichiatrico qual è la linea di demarcazione che separa la volontarietà e consapevolezza di un atto delittuoso da ciò che impropriamente chiamiamo ‘raptus’ e ‘follia’?
Se io oggi dovessi parlare di questa declinazione che nel tempo ha avuto lo studio della violenza nella mia esperienza professionale dovrei fare i conti con un fatto nuovissimo che è quello che dura in modo diffuso da qualche anno. Oggi infatti si parla di aggressività/regressività, di predatore e preda, quindi di un comportamento biologico, ed è inter-specifica. Poi c’è sempre la violenza che è tipica dell’uomo: ‘homo homini lupus’ ed è intra-specifica. Oggi dovrei parlare piuttosto di “distruttività”, non nel senso considerato da Fromm che la intendeva come violenza estrema. Oggi il termine spiega una situazione diversa: “io ammazzo lei, distruggo la casa e poi mi faccio fuori”. La distruttività così spiegata è la forma di violenza che oggi sta prendendo piede. Non dico che parlare di violenza sia superato, anche se essa ha uno scopo, ad esempio si agisce per gelosia. La distruttività è una piccola apocalisse… ammazzo tutti, distruggo tutto e chiudo il cerchio ammazzandomi.
Il disagio degli adolescenti si esprime anche attraverso comportamenti aggressivi verso di sé e verso gli altri. Bullismo, cyberbullismo, baby-gang sono formule banali che non spiegano i fatti se non si risale ai vissuti. Ad esempio il contesto familiare non sempre adeguato, l’assenza di relazioni primarie, l’ostilità e l’indifferenza che circonda i minori. Si tratta forse di un epifenomeno che nasconde debolezze e fragilità interiori? Lei una volta mi aveva detto: “i primi tre anni di vita di un bambino sono fondamentali”.
Bisogna essere molto chiari: qui ritorna il tema della solitudine, di cui lei mi ha parlato prima.
Qual è la vera paura, il dramma? E’ quello di essere solo cioè non essere accettato da nessuno: questo è il punto di riferimento di quello che chiamiamo in età di adolescenza “essere contro”, non importa contro chi.
Ma l’adolescenza non è una malattia, è fase di crescita: qui psichiatria e psicologia sbagliano quando vogliono psichiatrizzare e psicanalizzare tutto. Bisogna accompagnare gli adolescenti ad uscire dalle loro difficoltà. Se noi vogliamo insegnare loro a vivere dobbiamo far sentire a questi ragazzi che non sono soli. Lei un giorno mi spiegherà perché i media danno voce a tutto. Può allora una scuola ‘giudicare’? Assolutamente no. Il voto non è un giudizio: ma perché la classe della scuola pubblica dell’obbligo non deve essere il primo gruppo dei pari età? Bisogna fare il giuoco dell’orchestra, tu sei il violino e tu batti il tamburo, non tu vali 2 e tu vali 4.
Però l’insieme è la ‘sonata’. Io ero un secchione orrendo, da studente: ciò che voglio dire è che nella scuola dell’obbligo non è possibile differenziare e giudicare, non si può obbligare un ragazzo ad andare a scuola per essere giudicato un cretino. All’Università fate quello che volete ma nella scuola dell’obbligo cercate di conoscere e comprendere non di giudicare. Circa i primi tre anni di vita pensi solo ai bambini privi di contatto fisico affettivo in famiglia durante il lockdown. Sarà una carenza che forse avvertiranno crescendo.
E’ notizia di questi giorni la circolare dell’INVALSI che ripristina i test per l’accesso agli esami di maturità. Francamente ciò mi lascia perplesso perché l’ammissione alla prova di maturità non può essere decisa in base a test generalisti, criptici, in stile aut-aut e sincopati: la valutazione di merito spetta ai docenti che hanno conosciuto e visto crescere quegli adolescenti, non può essere delegata a un istituto esterno. Questa esternalizzazione attraverso test di ammissione assomiglia a una forca caudina riduttiva: se passi qui sotto sei ammesso, altrimenti no. Ma i docenti di classe conoscono pregi e difficoltà dei loro alunni, la pedagogia insegna che l’educazione è comprensione nel senso più profondo e completo del termine…
Sono totalmente d’accordo. Mi vuole spiegare perché negli ultimi decenni la politica esprime una selezione delle persone più ‘ignoranti’ (nel senso di ignorare…)? Alla politica arrivano persone un po’ maniacali, che non sanno nulla, si ritengono capaci di fare tutto e alla fine improvvisano. Torniamo ai signori nessuno o qualcuno. E’ una selezione della stupidità. E’ una vergogna una scuola così. Che scuola vogliamo? Ecco che torniamo a chiederci: che uomo vogliamo? Ritorna l’importanza del futuro, dobbiamo dare spazio a quello che ancora non c’è, tutto è legato al qui e ora. Che uomini diventeranno questi ragazzi? Ci occupiamo della scuola (dove ci sono bravi insegnanti mal pagati) risolvendo l’educazione nei test? Io ne ho fatti molti nella mia vita e posso dire che non valgono nulla se non si associano ad un rapporto umano! L’educazione non si risolve in algoritmi, acronimi e formule.
Semplificando potremmo dire che la definizione più nota di apprendimento esprimeva una interiorizzazione del sapere: il passaggio di nozioni, norme, valori dall’esterno all’interno. C’è un rischio che attraverso le tecnologie si compia il percorso inverso: dall’interno all’esterno? Lei ha dedicato un libro a questo tema: ‘dobbiamo usare il cervello che abbiamo in testa piuttosto che quello che portiamo in tasca’. Tra i pericoli di questa inversione vedo la perdita del pensiero critico, l’omologazione culturale, la banalizzazione della cultura a bene di consumo. Ma c’è qualcosa di più pericoloso e incombente: la perdita dell’identità. E’ d’accordo?
Sono d’accordissimo, menomale che oggi c’è ancora una identità affettiva che ci salva. Un robot non potrà mai esprimere un rapporto affettivo. Dobbiamo distinguere tra affetto ed emozione, che è solo una risposta ad uno stimolo. Diversa cosa è l’affetto che è un legame, senza cui non è possibile vivere, anche quando uno manca: è la presenza dell’assenza. Oggi anche attraverso il Metaverso si sta cercando di portare l’affettività nelle emozioni, anche ‘facendo finta’.
Mi permetta di ricordare la bellissima poesia di Attilio Bertolucci: “Assenza più acuta presenza. Vago pensier di te, vaghi ricordi turbano l’ora calma e il dolce sole. Dolente, il petto ti porta come una pietra leggera”.
Penso che questa poesia sia un aforisma del legame affettivo, spieghi il senso del mio pensiero.
Il legame affettivo nel mondo virtuale sarà la scissione, il distacco, l’inganno e la distruzione.
Le racconto un aneddoto che mi riguarda: io ho fatto parte di un gruppo di studio internazionale la cui sede italiana era presso La Sapienza. In prevalenza composto da ingegneri ed esperti del mondo digitale. L’unico “psico-coso” ero io. Si dibatteva su come diminuire le resistenze affettive per sostituirle con le emozioni: ovviamente ero contrario anche se volevano da me la descrizione di un uomo privo di affettività, intesa come disturbo del comportamento sociale. Dal loro punto di vista immaginavano una società composta da persone esecutrici di compiti. Il concetto da taluni esposti era questo: se noi togliessimo l’affettività non ci sarebbero digressioni o elementi di disturbo, le vere resistenze sono gli affetti che condizionano fino all’errore. Ho imparato molto da quella esperienza professionale ma non condivido l’idea degli uomini tutti uguali, svuotati dai legami affettivi, controllati e guidati. Ritorna il mio pensiero al bellissimo libro “I padroni d’umanità” di Chomsky. Non si può cancellare l’affettività e sostituirla – al massimo – con le emozioni.
Prof. Andreoli, in chiusura di questa interessante conversazione vorrei riprendere un tema che avevamo già affrontato. Quello della vita come paese dei balocchi, dell’ironia che ridimensiona e banalizza l’esistenza e le relazioni con il prossimo come se vivessimo una sorta di casting mediatico. Ricordo le Sue parole: “Io non ne posso più della ‘ironia’, adesso sono tutti spettacoli dove si deve fare ironia, satira: è tutta grande ignoranza. Invece la serenità è una cosa molto seria che si fonda sul rispetto dell’altro, sul saper vedere la positività nell’altro, sul sapergli sorridere invece di scappare. E’ ora di finirla di dire che l’ironia salva il mondo: è una idiozia. Ciò che salva il mondo è il rispetto dell’altro, fino a riuscire ad amarlo”. Mi sembra come direbbe De Gaulle “un vaste programme” ma credo sia importante ribadire l’importanza di questo messaggio che è un invito al senso autentico della vita e mi pare utile specialmente ai giovani. Può aggiungere qualcosa che rafforzi questo concetto?
Non solo confermo ciò che avevo detto ma ho fatto un passettino in avanti. C’è oggi bisogno di una trasformazione di pronomi: dobbiamo passare dall’io al noi. Nel ‘900 è nata la psicologia dell’io, inventata da Freud con il libro ‘L’interpretazione dei sogni’. Recentemente, non voglio parlare di me, io non sono nessuno, ho invece citato una grande persona, ho scritto un libretto che si intitola “La psicologia del noi”.
Non se ne può più di questo “io”: l’io si può coniugare solo se c’è il noi, sapere quanto conta la vita degli altri.
Il Narciso era pieno di sé e si è annegato abbracciandosi.