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Freud

Giuseppe Conte, l’arcitaliano. Sigmund Freud, l’antinarciso

Il Bloc Notes di Michele Magno

In un’intervista di qualche tempo fa al talk show Dimartedì (La7), Giuseppe Conte ha detto che “la mia politica è curare le parole, la profondità del pensiero e non affidarsi agli ismi”. Inoltre, ha annunciato la prossima pubblicazione dei suoi discorsi pubblici, per dimostrare che nei due governi che ha guidato è rimasto sempre lo stesso, non ha mai cambiato registro. Le parole dell’ex avvocato del popolo, già punto di riferimento fortissimo delle forze progressiste, dimostrano che egli è un impeccabile rappresentante del nostro “carattere nazionale”.

Coniata dai moralisti francesi del Seicento, la locuzione fa ingresso nella nostra letteratura con il Discorso sopra lo stato presente del costume degli Italiani di Giacomo Leopardi (1824). Ma prima che il grande poeta prendesse la penna per dirci in prosa, brutalmente, come siamo fatti, la descrizione del carattere dell’italiano aveva occupato l’ingegno di molti artisti europei e tenuto desto lo spirito di osservazione di una fitta schiera di viaggiatori che, in particolare nel secolo dei Lumi, giungevano nella nostra penisola col proposito di completare la propria formazione classica grazie alla formidabile esperienza del Grand Tour. Tuttavia, partiti con programmi culturali ambiziosi, spesso tornavano in patria con taccuini pieni di massime antropologiche non proprio benevole con il Bel Paese, come quella di Pierre-Jean Grosley: “L’Italie est le pays où le mot ‘furbo’ est éloge ” (1764).

Giulio Bollati, nel saggio “L’Italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione” (Einaudi, 2011), scrive che nelle intenzioni degli esponenti della sinistra storica, a partire dal suo inventore Agostino Depretis, “Il trasformismo era nato come equazione chimica: il passaggio da uno stato all’altro, dall’arcaicità al moderno, dal vecchio al nuovo. Ma si era rapidamente trasformato nell’opposto: immobilismo, consociazione di diversi solo apparenti, in realtà tenuti uniti dalla chiusura verso la società. Da qui indifferenza agli schieramenti, interessi particolari di singoli capibastone scambiati con l’interesse generale, governi fragili e in mano a drappelli di deputati pronti a vendersi al miglior offerente, affarismo. Per questa via il trasformismo assume definitivamente il significato peggiorativo che ha: distanza tra i propositi dichiarati e i comportamenti effettivi, abilità nel far propri temi e parole dell’avversario per svuotarli di significato, disponibilità a lasciarsi catturare, contrasti in pubblico e accordi in corridoio. Il trasformismo è apparenza, spettacolo, indifferenza al merito delle questioni. Il suo scopo è il potere in quanto tale”.

Era ieri, ma sembra oggi.

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In un saggio del 1917 apparso sulla rivista viennese Imago con il titolo Una difficoltà della psicoanalisi, Sigmund Freud ritornò sul mito di Narciso (di cui esistono due versioni, quella ellenica e quella romana di Ovidio), il giovane superbo e vanitoso che si innamora di se stesso contemplando la propria immagine riflessa nell’acqua. Se ne era occupato a lungo fra il 1912 e il 1914, esaminando il rapporto tra nevrosi e mondo magico, e accostando quest’ultimo al mondo dell’infanzia, nel quale si crede che la realtà possa essere cambiata -proprio come nei riti magici- solo con le parole.

Al narcisismo del genere umano -sostiene in quel saggio, tradotto in italiano da Cesare Musatti già nel 1949- la scienza moderna ha inferto tre gravi umiliazioni. Alla metà del Cinquecento era stato Nicolò Copernico a scardinare il sistema tolemaico, in virtù del quale l’uomo si credeva il signore dell’universo. Mentre la Terra -la sua casa- non è che una microscopica realtà in uno spazio infinito. Questa è la prima umiliazione, quella cosmologica. Dopo Copernico -prosegue Freud- Charles Darwin ha rovesciato la concezione antropocentrica, togliendo all’uomo un’altra grande illusione: quella di non appartenere al regno animale, anche se è riuscito -nel corso della storia della civiltà-  a scavare un abisso con le altre specie viventi. Questa è la seconda umiliazione inferta al suo narcisismo, quella biologica.

Restava un ultimo regno, in apparenza incontrastato e intoccabile: quello dell’anima, che è per ciascuno di noi la “nostra” anima. Qui l’uomo poteva continuare a credere di essere un sovrano assoluto. La psicoanalisi ha invece mostrato che l’attività psichica non coincide o non si esaurisce nella coscienza. L’io si sente spesso a disagio, incontra limiti al suo potere dentro di sé, nella sua stessa dimora. Appaiono improvvisamente pensieri di cui non conosciamo l’origine, che rischiano di impadronirsi di noi e che non riusciamo facilmente a scacciare. Questa è la terza umiliazione che il sapere ha inferto all’uomo, quella psicologica.

La scienza moderna, dunque, ha smontato il narcisismo del genere umano. Agli occhi di Freud, soprattutto per tale motivo essa non è solo una forma di conoscenza, non ci aiuta solo a controllare la natura: impartisce anche una insostituibile lezione di vita. Un duro messaggio, il suo, sviluppato più avanti in un testo, Lavvenire di unillusione, che costituisce una difesa della scienza fra le più lucide e brillanti messe in campo nel primo trentennio del secolo scorso (siamo nel 1927, l’anno stesso della pubblicazione di un’opera che è ai suoi antipodi, Essere e Tempo di Martin Heidegger).

Possiamo dire -afferma l’autore di Totem e tabù– che “l’intelletto umano è senza forza a paragone della vita pulsionale e possiamo aver ragione in questo. Ma c’è qualcosa di particolare in questa debolezza: la voce dell’intelletto è fioca, ma non ha pace finché non ottiene ascolto. Alla fine, dopo ripetuti e innumerevoli rifiuti, lo trova. Questo è uno dei pochi punti sui quali si può essere ottimisti per l’avvenire dell’umanità, ma non è un punto di poca importanza”.

Al di là delle mode e dell’uso, talvolta insopportabilmente parrocchiale, che ne fanno i suoi seguaci, il padre della psicoanalisi resta un gigante del pensiero del Novecento. I grandi classici -e Freud senza dubbio lo è- hanno questo di straordinario: anticipano, in forma sintetica, ciò che più tardi diventerà senso comune. Spesso, inoltre, scrivono con una chiarezza incomparabilmente maggiore di quella dei loro commentatori. “Passare dai commentatori ai classici -ha scritto il filosofo Paolo Rossi- dà sempre un senso di sollievo quasi gioioso. È facile provarlo. Basta prendere in mano un testo di Freud dopo aver letto un gruppo di pagine di Lacan. Sembra di aprire una finestra in una stanza piena di fumo” (Sigmund lanti-Narciso, Il Sole 24 Ore, 29 gennaio 2006).

 

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