“Tutti gli uomini sanno dare consigli e conforto
al dolore che non provano”
(William Shakespeare)
Ho sempre pensato al ‘dentro’ e al ‘fuori’ come a due categorie che sostanziano e – a volerle approfondire – spiegano la nostra esistenza. Sono luoghi fisici, innanzitutto, corporei e ci appartengono come persone, ma anche entità immateriali che non sempre riusciamo a cogliere e a leggere nella loro complessità. Riguardano i pensieri e le azioni che ne derivano, i sentimenti che sono generati nei meandri reconditi della nostra intimità e si traducono in comportamenti: amore, odio, comprensione, indifferenza, empatia, rancore inevitabilmente interrelati in una dimensione relazionale con gli altri. C’è un dentro e un fuori in noi ma anche nei contesti della nostra quotidianità: ad esempio basta aprire o chiudersi alle spalle una porta di casa per rendersi conto di quanto complessa e sovente inimmaginabile sia la molteplicità della realtà che ci pertiene. Molto spesso celata dalle apparenze, nascosta ai più, indescrivibile, insospettabile, indossa le molte maschere delle alterne vicende della vita, è sfuggente, interessante, non di rado inesprimibile ove non addirittura lungamente inespressa. Chi per professione deve gestire e guidare questa realtà per conoscerla, capirla, aiutarla ad emergere dai coni d’ombra impenetrabili se non attraverso scandagli interiori, dialoghi maieutici, ascolto, metabolizzazione e condivisione degli aspetti problematici di quella condizione di precarietà che avvolge le fragilità della dimensione umana dell’essere e dell’esistere, si prende cura di stati d’animo che procurano distonie e sofferenze. Ci vuole preparazione professionale, intuizione, pazienza, disponibilità, capacità narrativa e di convincimento, abilità nel saper affrontare in modo condiviso il senso di inadeguatezza e le difficoltà della vita e poi una dote antica, un dono che da secoli chiamiamo ‘sapientia cordis’ che io traduco come benevolenza, ricchezza smisurata di umana comprensione, bontà dell’anima.
Il Prof. Vittorino Andreoli ha svolto questo compito come psichiatra di fama internazionale da molti decenni e ci ha lasciato in dono una enorme produzione bibliografica, si può dire che abbia voluto raccogliere e condividere nei suoi libri le esperienze umane e professionali realizzate con sapienza, competenza, scienza e coscienza, come in una sorta di compendio sulla vita. Un vero dono di entità e valore incommensurabili.
Se dovessi esprimere – in tutta umiltà – con due parole le qualità personali e scientifiche che più mi hanno colpito della figura carismatica del Professore userei questi due termini: serietà e dedizione.
Ricordo un’interessante e per suo merito profonda e affascinante intervista che mi aveva concesso che si concludeva (dopo aver considerato le paure, lo stress, l’ansia, la depressione, le psicopatologie del quotidiano, le sofferenze dell’esistenza, persino la follia) con una valutazione del concetto di ironia come modo per alleggerire le difficoltà della vita e guardare ad essa con ottimismo, quasi per bypassare i problemi nei quali sovente finiamo per impantanarci come in una sorta di eccesso di zelo nell’ascolto. Non dimentico la sua risposta, quasi severa, sulla quale spesso torno ad interrogarmi: “Io non ne posso più della ‘ironia’, adesso sono tutti spettacoli dove si deve fare ironia, satira: è tutta grande ignoranza. Invece la serenità è una cosa molto seria che si fonda sul rispetto dell’altro, sul saper vedere la positività nell’altro, sul sapergli sorridere invece di scappare. E’ ora di finirla di dire che l’ironia salva il mondo: è una idiozia. Ciò che salva il mondo è il rispetto dell’altro, fino a riuscire ad amarlo”.
Questo richiamo alla serietà con cui affrontare con dedizione e ‘amore’ i marosi della vita è per me il modo migliore per introdurre l’ultimo libro del Professor Andreoli: “Storia del dolore”.
Un tema che non vorremmo mai affrontare, considerando il dolore un accidente della cronaca e della storia della vita, un argomento da evitare per la sofferenza fisica o mentale che procura. Andreoli ne tratta in quasi 500 pagine e affronta un tema così difficile da metabolizzare ed elaborare, usando il metodo espositivo della narrazione: racconta 5 storie in cui in modo diverso e soggettivamente interiorizzato ed espresso il dolore è il protagonista delle trame di vissuti che esprimono stati di sofferenza diversi tra loro ma egualmente connotativi e denotativi della condizione umana nella sua dimensione ontologica e storicizzata: l’essere e l’esistere.
Forse un testo di saggistica di analoghe dimensioni sarebbe stato inevitabilmente destinato ad un pubblico più ristretto di lettori, attrezzati in quanto a codici semantici, simbolici ed espressivi strettamente clinici.
In questo modo invece, l’autore si rivolge a tutti e il suo libro diventa una sorta di romanzo sul dolore, le vicende narrate riprendono casi di cui il Professore si è occupato che diventano paradigmatici per esprimere e approfondire diversi aspetti della vita come luogo di transito e di sosta di situazioni umane e (inevitabilmente) relazionali in cui le condizioni del dolore e della sofferenza si intrecciano con le storie dei protagonisti ed offrono uno spaccato intelligibile dove potersi riconoscere, pur nella specificità dei contesti.
Il racconto è a un tempo il modo per esprimere , descrivendolo, il proprio dolore e la terapia per elaborarlo.
Trovo fondamentale l’approccio metodologico: considerare il dolore nella sua caleidoscopica rappresentazione come una parte essenziale del vivere, direi ineludibile, inevitabile, consustanziale.
Un gesto umano e professionale di coraggio quello intrapreso dal Professor Andreoli poiché la realtà oggi è intesa come una sorta di luogo dell’effimero e transeunte, la vita stessa assume un valore relativo, dobbiamo fuggire le situazioni che ci allontanano dalla fruizione del godimento, affrontare con spavalderia i pericoli, affermare se stessi anche soverchiando il nostro prossimo.
Ed espungere il dolore come un fastidioso accidente temporale, eluderlo inebriandosi con ogni mezzo che ci consenta di superarlo. Vita e morte sono categorie del meramente possibile, notiamo come spesso i giovani attribuiscano un valore riduttivo all’una e all’altra condizione, basti pensare ai giochi pericolosi, al consumo del corpo, alle sfide con il destino, al carpe diem inteso in senso estensivo come “ora, qui e tutto”.
Educare a metabolizzare il dolore è un dovere professionale per uno psichiatra, vincere resistenze, chiusure, stati d’animo volti al peggio, sofferenze indicibili.
“Oggi il termine “sofferenza” è considerato una malattia, terrorizza e l’imperativo è di eliminare il dolore, anche quello fisico…Ma l’uomo senza dolore non lo riconoscerei, l’uomo che non sa amare e dunque che manca del desiderio di legarsi e farsi parte dell’altro, non mi attrae. L’uomo che non desidera, perché ritiene di essere e di avere tutto mi spaventa”.
Ricordo ciò che mi disse il Maestro Pupi Avati in esordio di intervista: “Io penso che attraverso le dichiarazioni di inadeguatezza, che sono una costante dei miei protagonisti – sono tutti personaggi portatori di disistima, di ingenuità , di complessi di inferiorità, incapaci di vivere all’altezza del contesto e delle aspettative sociali, – alla fine del racconto quelli che sembravano i più fragili e i soccombenti diventano nelle mie trame in fondo degli eroi. Per rendersi reciprocamente attendibili io debbo esordire con lei confessando una mia debolezza, se esprimo fin da subito quello che è un mio limite lei si fida di me e mi ascolta con maggiore attenzione”.
Sta dunque qui la chiave per superare i limiti e le difficoltà della vita: aprirsi agli altri, raccontarsi, lasciarsi penetrare dalle vicende umane altrui, considerare la sofferenza, la disistima, l’inadeguatezza e il dolore stesso come passaggi obbligati per riappropriarsi di una autenticità che è ‘valore’ potenziale, punto di partenza per compiere il nostro viaggio carichi di sentimenti e di consapevolezze.
Il Professor Andreoli ci propone di attraversare la storia del dolore (come attore, soggetto, non oggetto di studio) cercando di conoscerlo, per affrontarlo come un aspetto, certamente il più faticoso e difficile dell’esistenza.
Il suo libro è denso, carico di significati e di esplicitazioni per favorire un approccio narrativo e quindi una più agevole comprensione delle trame paradigmatiche in cui riconoscere una parte di se’ e rispettare la sofferenza altrui, con la dignità che merita.
Nulla è tralasciato al caso o abbandonato all’oblio, l’immediatezza del racconto ci immerge in questa lunga, interminabile storia del dolore, perdervisi è un’apparenza perché l’impianto del libro è – ad ogni pagina – un invito a ritrovare se stessi. Da leggere.