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Giorgetti

Vi spiego come e perché Draghi ha svelato i trucchetti di Conte

Le ragioni posticce della crisi più pazza del mondo provocata da Conte e le opportune mosse di Draghi nella nota di Francesco Damato

 

In una visione retrospettiva della crisi di governo, senza volere risalire all’anno scorso, quando Giuseppe Conte si sentì ingiustamente estromesso da Palazzo Chigi, il momento preciso in cui il presidente del MoVimento 5 Stelle ha acceso, volente o nolente, l’incendio in corso è quello della scissione di Luigi Di Maio, attribuendone la regìa, o qualcosa del genere, a Mario Draghi. Un sospetto, questo, che Conte ha sovrapposto allo spazio, lasciato per un po’ anche dallo stesso Grillo, alle polemiche sulle presunte pressioni esercitate sempre da Draghi sul garante del movimento per “farne fuori” il presidente.

Tutto il resto – compresa la richiesta di una “forte discontinuità” e di un “cambio di passo” nell’azione di governo – è venuto dopo. E a me è francamente apparso posticcio in tutti i sensi, come un tentativo di dare alla vertenza politica un contenuto diverso, sul piano propagandistico più spendibile di una crisi di nervi, o qualcosa di simile.

Quando neppure la smentita di Grillo – e la sua rilettura della Divina Commedia di Dante Alighieri per mettere nel girone infernale dei traditori quanti gli avevano attribuito confidenze e quant’altro sulle pressioni da Palazzo Chigi contro un Conte “inadeguato”- ha tranquillizzato il suo predecessore, Draghi ha escluso di poter guidare un governo senza la partecipazione -ma convinta- dei grillini. Se non lo avesse fatto, o si fosse mostrato minimamente disponibile al cosiddetto Draghi bis senza le 5 Stelle, o col solo loro appoggio esterno, egli avrebbe ridotto la credibilità della smentita opposta alla regia della scissione attribuitagli.

Più che un generoso riconoscimento della importanza, essenzialità e quant’altro del movimento pentastellato pur abbandonato da una sessantina di parlamentari, e privo della maggioranza relativa dei seggi parlamentari conquistata nelle elezioni politiche del 2018, Draghi ha fatto col suo rifiuto di guidare un governo senza i grillini un’operazione politica di avveduto incastro di Conte alle sue responsabilità. Ha cioè tolto al suo predecessore ogni pretesto di sospettarlo sleale. E ciò anche a costo -va aggiunto- di infliggere alla scissione di Luigi Di Maio un colpo forse addirittura fatale, come la dimostrazione della sua inutilità ai fini della stabilità e della chiarezza della maggioranza su un terreno peraltro così delicato com’è quello della politica estera dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Un terreno, quello della politica estera e della guerra scatenata da Putin, su cui Di Maio aveva avvertito e denunciato con anticipo il pericolo -ma qualcosa anche più di un pericolo- che Conte perseguisse il famoso “disallineamento” dell’Italia dall’Europa e dalla Nato interrompendo la partecipazione agli aiuti militari all’Ucraina.

Bisogna riconoscere con obiettività che dal momento in cui Draghi ha riconosciuto come più non si poteva l’importanza o essenzialità di ciò che è rimasto del MoVimento 5 Stelle dopo la scissione, Di Maio si è trovato nella condizione non certo incoraggiante di un suo predecessore alla Farnesina: Angelino Alfano. Che nella scorsa legislatura da “diversamente berlusconiano” – ricordate? – aiutò prima Enrico Letta e poi Matteo Renzi a governare senza Silvio Berlusconi, passato all’opposizione dopo l’estromissione dal Senato a causa di una controversa ma definitiva condanna per frode fiscale, prenotando però solo il proprio pensionamento politico. Ora Alfano è solo un ex col suo – ricordate anche questo? – “nuovo centro destra”. Di politico, in senso però più culturale che pratico, egli ha solo la presidenza della Fondazione Alcide De Gasperi. Cui deve – credo – l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica conferitagli di recente e consegnatagli personalmente dal capo dello Stato.

Più particolarmente nel nostro caso, Di Maio rischia, con la possibile accelerazione elettorale derivante dalla crisi, di non avere più neppure il tempo di predisporre materialmente per il suo progetto “Insieme per il futuro” la rete di collegamento con sindaci e liste civiche che lo ha già visto impegnato in un incontro, fra gli altri, con Beppe Sala a Milano.

Ma se il ministro degli Esteri non avrà il tempo di tessere il suo progetto con i sindaci, o con l’affollata area di centro, neppure Conte avrà il tempo di quella specie di rigenerazione politica all’opposizione per la quale premono in tanti su di lui, in ciò che resta del suo movimento, nel tentativo o nella illusione di fermare la discesa elettorale, o addirittura di invertire la tendenza. L’ex presidente del Consiglio si è insomma infilato nel più pazzo vicolo cieco, “coerentemente” – come ha detto per spiegare il rifiuto della fiducia al Senato – con la legislatura, anch’essa più pazza del mondo, cominciata quattro anni fa con la vittoria elettorale dei grillini e col suo davvero imprevisto approdo a Palazzo Chigi.

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