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Russia Turchia

Tutte le ambiguità di Turchia e Russia sulla Siria

I rapporti tra Turchia e Russia. La situazione in Siria. Le "bombe" umane. La reazione della Grecia. E la posizione (poco comprensibile) dei leader Ue. Il Punto di Marco Orioles

Più di qualcuno in Europa si sintonizzerà oggi sulle frequenze russe per seguire le cronache di un vertice quanto mai delicato: quello tra un uomo, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan, che ha appena riversato sui confini esterni Ue la bomba più radioattiva di tutte – decine di migliaia di disperati in fuga dalla guerra o, più probabilmente, dallo stesso Erdogan – e quel Vladimir Putin le cui armate e la cui aviazione hanno più di qualche responsabilità in questa nuova emergenza.

E chissà se, dietro le porte chiuse di un summit che si annuncia infuocato, il Sultano di Ankara chiederà conto e ragione al suo interlocutore dei 34 soldati turchi periti la settimana scorsa nella provincia siriana di Idlib sotto le bombe scagliate, a quanto pare, dai jet che lo stesso Putin ha trasferito in Siria affinché sostengano e accelerino la reconquista operata dalle truppe del nemico n. 1 di Erdogan, il presidente siriano Bashar al-Assad.

Già, perché sembrerebbe proprio – se ci si fida del suggerimento di Amberin Zaman, giornalista del sempre informato Al Monitor – che quel bombardamento notturno in cui ha perso la vita in un colpo solo il numero più alto di soldati turchi da quando Ankara è intervenuta militarmente nella guerra civile siriana sia da attribuirsi agli unici aerei in grado di operare nelle tenebre: quelli russi.

Che ci sia o no questo momento verità in una relazione – quella tra Russia e Turchia e i rispettivi uomini forti – che è ormai impossibile da decifrare dato che coniuga lauti affari e guerra aperta, è certo che a Putin ed Erdogan non mancheranno gli argomenti da intavolare e di cui, ovviamente, accusarsi a vicenda.

In Siria, del resto, il sibilo delle bombe è ormai ininterrotto da tre mesi in uno scontro in cui, oltre ai soliti civili, stanno morendo a raffica militari formalmente appartenenti alla Nato: nel solo ultimo mese se ne sono contati più di cinquanta, di cui tre nelle scorse 24 ore.

E nel bilancio non ci sono solo le vittime con indosso le mostrine del secondo esercito più potente dell’Alleanza Atlantica, o quelle decisamente più numerose inquadrate nelle armate di Damasco (entro cui, a loro volta, si ritrovano combattenti libanesi, iraniani, iracheni e di chissà quali e quanti altri Paesi del famigerato “asse della resistenza” telecomandato da Teheran). Nell’ultima ridotta dei ribelli anti-Assad chiamata Idlib si odono nitidamente infatti l’ininterrotto fragore delle bombe che, oltre agli umani, stanno incenerendo aerei, droni, carri armati e ogni altro tipo di armamento finito nel mirino degli opposti schieramenti.

Idlib, del resto, è ormai ufficialmente il teatro delle operazioni della missione denominata “Scudo di Primavera” che un Erdogan furente ha lanciato lo scorso 28 febbraio con l’obiettivo di vendicare quei soldati e, soprattutto, far pagare ad Assad e al suo alleato Putin il tradimento della promessa fatta solennemente dallo stesso Zar a Erdogan un anno e mezzo fa di risparmiare quel territorio dalla furia assadista e dalle bombe degli aerei che Mosca ha messo a disposizione, insieme a zelanti piloti, del galantuomo di Damasco.

Bisognerà aspettare stasera per sapere se i due attori più spregiudicati in una guerra dove il cinismo si taglia a fette saranno riusciti a concordare in quel di Mosca una de-escalation a cui, almeno a parole, Vladimir Vladimirovich si è detto ieri – attraverso il suo portavoce, Dmitry Peskov – pronto.

Anche al Cremlino, d’altra parte, non sfugge che giusto ieri ad Ankara si presentato l’inviato speciale della Casa Bianca sulla Siria, James Jeffey, per discutere con lo stato maggiore turco la richiesta di assistenza militare avanzata  da Erdogan, che agli increduli americani ancora inferociti per la decisione dello stesso Sultano di acquistare al gran bazar russo delle armi le batterie del sistema di difesa anti-aerea S-400 ha chiesto addirittura di schierare proprio il sistema alternativo (e made in Usa) Patriot che Ankara ha sdegnosamente rifiutato di acquisire malgrado i diktat Usa.

Per quanto delicati, non sono questi però i temi dell’odierno vertice che saranno al centro dell’attenzione nella vicina Europa. Qui infatti, più che ad un conflitto cui l’Ue ha da sempre guardato col binocolo, l’attenzione sarà tutta concentrata sulla guerra parallela che si sta combattendo al confine di terra turco-siriano con l’arma più terrificante di tutte: i rifugiati.

Una guerra di cifre, anzitutto, che si gioca nel campo della contabilità, con i turchi da un lato interessati a gonfiare le cifre dell’esodo – stimato, secondo la martellante propaganda di Ankara, in 130 mila disperati riversatisi sul valico – e i greci, dall’altro, a emanare bollettini dettagliatissimi che sgonfiano di oltre due terzi quella valutazione (le coordinate esatte fornite da Atene sono di 32 mila circa attraversamenti illegali bloccati dalle guardie di confine, 4.600 dei quali nella sola mattinata di ieri, e di 231 arresti).

È dunque una guerra in cui si riconosce il bagliore delle fake news, per ricorrere all’espressione usata ieri dal portavoce del governo ellenico, Stelios Petsasl, per respingere al mittente l’accusa di aver provocato – con i metodi brutali adottati al confine dagli agenti, comunque documentati anche dai principali media ed agenzie di stampa mondiali, per impedire a quella massa umana di debordare – la morte di un richiedente asilo (sarebbe il terzo dall’inizio dell’emergenza) colpito, si sostiene, da proiettili veri sparati nei pressi del valico di Kastanies.

https://twitter.com/ahval_en/status/1235178175698587648?s=21

Peccato che la Grecia stia rispondendo colpo su colpo a chi l’accusa di violenza indiscriminata verso gli inermi e di sfregiare – copyright del governatore della provincia turca di Edirne e propagazione a cura del quotidiano turco Hurriyet -. il “diritto alla vita dei migranti” con proiettili di gomma e di metallo, lacrimogeni e addirittura “bombe sonore”.

E chissà cosa ne pensano, di questa accusa infamante, i leader supremi dell’Unione Europea accorsi l’altro ieri nel confine più rovente della terra per rassicurare Atene, e ritrovatisi al cospetto di un ufficiale dell’esercito ellenico che ha esibito loro la scritta “made in Turkey” su un lacrimogeno atterrato nei giorni precedenti nella parte greca del confine.

A giudicare dalle dichiarazioni ufficiali e dai tweet partiti dagli account social dei leader europei, la versione di Atene gode – a differenza di quella turca – della massima considerazione. Versione che è stata recitata al cospetto del capo della commissione e dei suoi colleghi direttamente dal primo ministro Kyriakos Mitsotakis, lesto ad accusare Ankara di essere diventata “il trafficante di migranti ufficiale dell’Unione Europea”. Un attore talmente spregiudicato da riversarae in un battibaleno al confine con la Grecia, per il solo capriccio di ricattare il Vecchio Continente, migliaia di persone che tra l’altro fino al giorno prima, secondo il premier, “stavano vivendo al sicuro in Turchia” e non sotto le bombe che piovono a grappoli nella provincia di Idlib.

L’accusa di Mitsotakis non era nuova, essendo stata formulata già qualche giorno prima dal suo portavoce Petsas (che ha parlato di una “invasione” organizzata a tavolino dai perfidi turchi), ma ha trovato una potente sponda proprio nel Paese dove tra qualche ora metterà piede Erdogan.

Come ha spiegato martedì ai media Oleg Zhuravlevm, capo del centro di coordinamento militare russo in Siria, Ankara sta “portando al pascolo” quei disperati in direzione Grecia, prelevandoli però non da Idlib ma da sicurissimi campi profughi disseminati in tutta la Turchia.

E non si tratterebbe nemmeno, secondo Zhuravlevm, di siriani, ma di un coacervo di migranti arrivati da mezzo mondo che Erdogan – come scrive un giornale che verifica sempre cinque volte o più ogni affermazione destinata alle rotative, il New York Times – ha impacchettato e spedito al confine con la Grecia attraverso dei comodi “autobus”.

E chissà se oggi, a Mosca, lo Zar di tutte le Russie ricorderà all’erede del califfato ottomano da dove viene la benzina che alimenta quei bus.

 

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