L’antefatto della penosa partita notturna sarda del centrodestra testa a testa con sinistra radicale e pentastellati, senza neppure un po’ di brivido dell’Azteca, anche perché il mitologico “Gigi” da poco ci ha lasciati, sta nei risultati delle Politiche del 2022. Giorgia Meloni con il suo FdI vinse ma non stravinse come scrivemmo con onestà intellettuale in pochissimi, compresa la grande Maria Giovanna Maglie, sulla base di numeri precisi e non lecchinaggi. Si fermò al 26 per cento su scala nazionale (poi certamente salito più in alto in alcune aree del Nord dove travolse la Lega), ma quel 30 per cento tanto sbandierato da adoratori mediatici di area di destra, più veloci della luce nel passare sempre dalla parte del più forte di turno della coalizione, è rimasto finora solo nei sondaggi.
Altro elemento mai tenuto in sufficiente considerazione: un conto è la premiership un altro è la leadership, quella nella coalizione è stata riconosciuta finora, non solo per i numeri o per lo stesso fatto che lui ne sia stato il fondatore, a Silvio Berlusconi per le sue doti federative e i suoi metodi da “concavo e convesso” con annesse doti di generosità e sicurezza in se stesso che Meloni, molto più giovane, pur molto valida, non ha ancora conquistato nel ruolo di premier con gli alleati.
Terzo elemento: a differenza di Berlusconi e Matteo Salvini, così incredibilmente massacrato dai giornali mainstream, che ormai gli attribuiscono anche i rovesci del meteo o come fanno certi stessi quotidiani area centrodestra, una volta più che proni a lui, ormai semi-ignorato o a pagina 20 anche se facesse uno spogliarello, per dire, di fronte a Montecitorio (da ricordare che grazie alla Lega uno degli Angelucci, editori di Libero, siede in parlamento), Meloni non ha mai pagato il duro prezzo di stare nel governo d’emergenza nazionale di Mario Draghi. Quello che ormai dominato dalla sinistra e dai Cinque Stelle ci avrebbe magari divorato di ulteriori tasse se Lega e FI, pure maltrattate dal grande banchiere, non fossero state lì a presidiare.
Onori ma anche oneri in politica. Resta il fatto che Lega e FI, seppur ridotte nel ’22 ad avere insieme più o meno il 16 per cento, ovvero il 10 per cento in meno di FdI, sono comunque indispensabili per governare. Analisi stereotipate e ormai davvero stucchevoli attribuiscono a Salvini sempre il ruolo del guastatore. Ma staccare la spina a Conte in realtà fu un vero atto di coraggio, soprattutto vantaggioso per il Paese. Salvini si è guadagnato il rischio di ben 15 anni di galera per essere stato l’unico ministro dell’Interno, insieme al suo omologo Marco Minniti ex Pci-Pds-Ds poi Pd, a ridurre notevolmente gli sbarchi nel nostro Paese. Questo non toglie certo l’importanza del Piano Mattei per l’Africa di Meloni, cui va dato atto di essersi mossa molto bene sul piano internazionale. Un po’ meno sul fronte interno con certa carenza di attenzione al ceto medio stritolato dalle tasse e alla riforma della giustizia che FI il partito principe del garantismo chiede a gran voce.
Si dirà: gli alleati minori devono abbozzare perché hanno meno voti e tanto il governo regge perché non c’è alternativa. Ma la politica ha ormai tornanti di velocità inimmaginabili e semplicistici calcoli aritmetici in politica non funzionano. Le azioni si pesano, non si contano, diceva Cuccia. Sui territori certa marcata smania un po’ famelica da parte della classe dirigente di FdI a prendere quello che altri hanno messo decenni per costruire ha creato non da ora fibrillazioni e soprattutto disorientamento tra gli elettori del centrodestra.
Identificare secondo calcoli di potere a tavolino la complessità dei territori, dove contano gli stretti rapporti personali e il personaggio governatore o sindaco con la freddezza dei Palazzi romani, non è stata una brillantissima idea. È accaduto nella ex Umbria rossa a Terni dove FdI impose in nome dei nuovi equilibri nazionali Orlando Masselli, umiliando Salvini, che aveva vinto nel 2018 con il sindaco Leonardo Latini, un leghista di area cattolica rispettato in città anche in aree di sinistra moderata. Risultato: vinse l’ineffabile outsider Stefano Bandecchi che schiaffò il centrodestra tutto all’opposizione. Lega pure fuori dal consiglio comunale. Ora in Umbria nonostante il pasticciaccio brutto della città delle Acciaierie, trattato dagli stessi quotidiani di area di destra come caso folcloristico grava come un macigno sulle stesse Regionali, dove una rappresentante della lista della governatrice leghista Donatella Tesei è già passata a FdI, secondo i maligni allo scopo di prendere il posto di Tesei. Indiscrezioni finora. Resta il fatto che Salvini, il vero artefice del clamoroso cambio umbro, nel fortino profondo rosso da 60 anni, altro che Marche ex rosate, è stato non solo umiliato in Sardegna dove dopo Berlusconi con Cappellacci è riuscito a far rivincere il centrodestra con il governatore Christian Solinas, capo del radicato e storico Partito Sardo d’Azione. Ma il leader leghista, vicepremier, titolare del Mit, è stato messo sulla corda pure nel grande Veneto con la bocciatura di FdI e FI del terzo mandato. Ovvero, la bocciatura della possibilità della rielezione del governatore più votato d’Italia, l’amatissimo “Doge” Luca Zaia, stimato ovunque dal popolo e dai grandi nomi della borghesia imprenditoriale.
Tafazzi stesso forse avrebbe da ridire se il centrodestra mandasse un ancora giovane e vigoroso Zaia in pensione. E che ratio avrebbe per FdI privare Salvini di uno dei suoi migliori fiori all’occhiello? A qualcuno è mai venuto in mente di togliere al sarto Valentino il suo celebre e inconfondibile rosso? È notte, non sappiamo ancora come finirà Sardegna. Ma anche se il meloniano Truzzu dovesse farcela per un pelo, FdI ha offerto al campo meno largo e più sbrindellato del mondo l’occasione di fare comunque un gol a porta aperta. Forzature e inutili arroganze da parte del più forte del momento fanno solo del male a una coalizione la cui forza è stata sempre l’unità e il rispetto reciproco. Non è mai stato questo lo spirito con cui il fondatore del centrodestra ha guidato la coalizione. Premiership una cosa, leadership un’altra. Si conquista. Con una competizione con gli avversari e sempre con se stessi, non con gli altri, a maggior ragione se leali alleati, come funziona anche nella vita.
In Sardegna Bandecchi non c’è. Ma c’è un leader pentastellato che non è o non era mai riuscito a conquistare una Regione. Anche solo averlo fatto arrivare a un passo dal traguardo è stato un errore molto grave delle scelte imposte da FdI e Meloni alla Lega. È notte, ormai Alessandra Todde, candidata di Conte, con appoggio della segretaria Pd, Elly Schlein, ha vinto, seppur per un soffio, a meno di ulteriori novità notturne. È la prima seria sconfitta di Meloni e del gruppo dirigente del suo partito. Con più collegialità e spirito unitario di FdI verso la Lega la si poteva evitare. Forse.
Ora sarà però un po’ tosta dire ancora di no a Zaia in Veneto. O tentare sgambetti per l’Umbria. Chissà. La politica ormai è un attimo. Poco da consolarsi se il centrodestra è sopra di circa 6 punti e cresce rispetto alle altre elezioni. La notizia è che Conte ha il suo primo presidente di Regione. E sarà una musica non facile pure per il Pd. Ma questa è storia più vecchia e scontata. E la sinistra sa essere fredda nel saper sfruttare il collante del potere per stare insieme.