skip to Main Content

Papa Negoziati Ucraina

Che ruolo ha avuto Papa Francesco nell’inizio dei negoziati tra Russia e Ucraina?

Guerra Russia-Ucraina. Prima che scontro geopolitico ed economico, il campo è ecumenico. La divisione tra i cristiani ha minato i cuori. Putin ne approfitta. La sfida di Francesco. L'approfondimento di Andrea Mainardi

 

In anticipo sui tempi delle bombe e dei missili. Prima degli sconfinati patrimoni economici; dei bancomat presi d’assalto nelle fonti di distribuzione di un rublo in caduta verticale. La guerra russa si è preparata nel perimetro delle iconostasi. Minando i cuori. Più a fondo di un pozzo di estrazione di gas. Con tempi di ricostruzione infinitamente più lunghi; in sentieri più tortuosi e profondi delle frontiere del Donbas, della penisola di Crimea, delle dogane distribuite sui 4mila chilometri e mezzo dei confini ucraini con Unione europea e mondo slavo. A patto che lo si intenda intraprendere quell’impegno di ricostruzione. E al momento così non è.

Il doveroso paramento della preghiera e dell’impegno umanitario – sostegno alle popolazioni, accoglienza dei profughi – è autenticamente evangelico nonostante il deragliamento della benedizione allo stendardo pacifista occidentale; quanto dimentico del precetto evangelico dell’unità – religiosa non degli stati -, che mostra il proprio scandalo, provocato dall’aver diviso i cristiani – non ieri: mille anni fa. Un tradimento che continua a generare rancori seminando guerre; a coltivare diffidenze, rinunciando alla certezza della libertà garantita al cristiano, ceduta per garanzia canonica al potere di turno. Non da ieri, da secoli.

Il vangelo è pieno di spade, e del Cristo che certifica di un satis est. Del realismo di un Cesare rimesso al suo posto nella noncuranza del suo povero potere temporale. Come di un impegnativo: il vostro parlare sia sì sì, no no.

Tutti inviti che ai falò per la pace nelle piazze accesi, si bruciano al calore della sollecitudine cieca; soffocati dal manierismo della compassione à la carte. Del sopracciglio alzato di chi la sa lunga, discettando di nazionalismi e di geopolitica da divano.

Di buoni sentimenti il vangelo è vuoto, quanto pieno di verità e giustizia. Divine liturgie, sante messe, servizi alla mensa della Parola; sotto cupole dorate, sotto campanili, nei templi delle aule del culto, loro malgrado hanno alimentato gli scontri tradendo l’ut unum sint. La divisione dei cristiani è il prolegomeni dei conflitti d’Occidente.

L’Ucraina ha dato i natali a Gogol’ diventato sanpietroburghese per ragioni di narrativa. Nella città dove domenica la polizia caricava 18enni disarmati per avere osato chiedere la pace con gli abiti e l’aria da parigini o londinesi. Anzi, più disarmati di un coetaneo sugli Champs Elysee o a Piccadilly Circus a manifestare per la qualunque. Ma trascinati via a favore di telecamere non ostacolate, anzi puntate, dal Cremlino. Perché la Russia profonda capisca. Ecco, Gogol’. Forse oggi avrebbe qualche prudenza a pubblicare Taras Bul’ba. Nella terra che negli anni ’90 del secolo scorso dismise le armi nucleari per la garanzia di tutela di autonomia e sicurezza dei confini da parte di Usa, Stati Uniti e Russia. Promesse disattese dai primi due e strappate dal terzo. Nella terra che prima del Mille osservò il battesimo di Vladimiro nelle acque del fiume Dnepr, prima di evangelizzare la parte moscovita della storia.

Tra quelle mistiche acque si divide l’ortodossia. Il problema prima che economico è ecumenico. Nel bizzarro corto circuito di una sola fede ortodossa, però fieramente spaccata per ragioni di potere e di denari ecclesiali, non mondani.

Oggi in Ucraina coabitano a fatica una chiesa fedele a Mosca e al suo patriarca Kirill, ed una autocefala riconosciuta da Bartolomeo di Costantinopoli.

Entrambi i patriarcati locali hanno usato parole ferme a difesa dell’Ucraina, contro le mire del Cremlino. Chiamando per nome l’aggressore e invitando a pregare per la pace, certo, ma anche per l’esercito ucraino. Il metropolita Onufry, capo della Chiesa ortodossa ucraina – Patriarcato di Mosca, ha esortato “ad intensificare la preghiera penitenziale per l’Ucraina, per il nostro esercito e il nostro popolo”, chiedendo ai fedeli “di dimenticare le reciproche liti e incomprensioni e di unirsi con amore a Dio e alla nostra Patria”. Appello inequivocabile: “Difendendo la sovranità e l’integrità dell’Ucraina, ci appelliamo anche al Presidente della Russia affinché fermi immediatamente la guerra fratricida”. Lucido il giudizio: “I popoli ucraino e russo sono usciti dalla fonte battesimale del Dnepr e la guerra tra questi popoli è una ripetizione del peccato di Caino, che uccise con invidia il proprio fratello. Una simile guerra non ha motivo giustificato né per Dio né per l’uomo”. Il suo vice aveva parlato nettamente di un “Putin (che) ha attaccato a tradimento il nostro Paese”.

Il metropolita Epifanio della Chiesa ortodossa ucraina (patriarcato di Costantinopoli) ha pronunciato un discorso molto forte, di “un attacco insidioso e cinico da parte di Russia e Bielorussia”. “Il nostro compito comune è respingere il nemico, proteggere la nostra patria, il nostro futuro e il futuro delle nuove generazioni dalla tirannia che l’aggressore cerca di portare”. Ha pregato per la pace, ma anche per la vittoria: “Ci fidiamo delle nostre Forze Armate, dei nostri difensori. Preghiamo con tutti coloro che sono in prima linea nella lotta contro l’aggressore… per la vittoria, per i nostri soldati”.

Il Patriarca Ecumenico Bartolomeo –cui fa riferimento la chiesa ucraina in alternativa al patriarcato di Mosca – ha subito espresso “profondo rammarico per questa palese violazione di qualsiasi nozione di legittimità internazionale”, condannando “l’attacco della Russia all’Ucraina, Stato indipendente e sovrano d’Europa”. E questo in “spregio alla giustizia”. Tutti hanno chiesto alla comunità internazionale di fermare Putin.

Ben differente l’argomentare del Patriarca russo Kirill. Muto fino al giorno dell’attacco, si è pronunciato brevemente solo il 24, molto attento a non dispiacere l’inquilino del Cremlino. Anzi, quasi a sposarne la narrativa imperialista, limitandosi a invitare “tutte le parti in conflitto a fare tutto il possibile per evitare vittime civili”. Domenica il primate è andato oltre, offrendo quasi una giustificazione teologica. Al termine di una Divina liturgia ha pregato per il conflitto in corso, invocando il concetto di una patria russa che includa l’Ucraina, e insistendo sull’autorità ecclesiastica di Mosca sui leader della Chiesa di Kiev.

Quanto Putin sfrutti l’elemento religioso lo ha detto nel suo lungo discorso del 21 febbraio, riferendosi alla situazione dell’Ortodossia russa in Ucraina. I suoi commenti: “Kiev continua a preparare la distruzione della Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Mosca. Questo non è un giudizio emotivo. Le autorità ucraine hanno cinicamente trasformato la tragedia dello scisma in uno strumento di politica statale. Le autorità attuali non reagiscono agli appelli del popolo ucraino di abolire le leggi che violano i diritti dei credenti. Inoltre sono stati registrati nuovi disegni di legge diretti contro il clero e milioni di parrocchiani della Chiesa ortodossa ucraina del Patriarcato di Mosca”.

Qualche colpa c’è. Si registrano alcuni episodi attribuibili a un gruppuscolo di fedeli della chiesa ucraina nella parte orientale russofona. Ma ricondurre quel che nel ragionamento democratico si rubricherebbe come faccenda di ordine pubblico a miccia per invadere un Paese è ben differente.

Allora perché Putin parla di scisma? Tra le 14 chiese ortodosse, Bartolomeo gode storicamente del ruolo di primus inter pares. È molto vicino a Roma. Spesso partecipa a incontri e liturgie in San Pietro. Se il Papa è l’erede dell’apostolo Pietro, il patriarca ecumenico lo è dell’apostolo Andrea. Però guida un patriarcato dai numeri ridotti.

Ben più imponente il patriarcato di Mosca, guidato da Kirill. Imponente per numero di fedeli e ingente disponibilità economica.

Tutti condividono la stessa fede, ma i bisticci amministrativi sono frequenti. Kirill nel 2016 fece fallire il sinodo pan ortodosso. Lo si preparava da sessant’anni, era atteso da secoli. Kirill non si presenta. Tre anni dopo, una porzione importante dell’ortodossia ucraina si separa da Mosca con la benedizione di Bartolomeo. Mosca insorge e giudica scismatici gli ucraini.

La questione si trascina. Quando, in seguito, il patriarca di Alessandria riconosce lo status di autocefalia come aveva fatto Bartolomeo, Mosca reagisce fondando in Africa nuove affiliazioni a lei fedeli.

A proposito di guerre e di narrazioni ecclesiastiche. Il numero due del Patriarcato di Mosca, il metropolita Hilarion, capo del Dipartimento per le Relazioni ecclesiastiche esterne, oltre a durissimi giudizi verso “gli scismatici” ucraini, in una recente occasione pubblica – presente Putin – si è definito non solo “ministro degli Esteri”, ma ormai anche “ministro della Difesa”.

È in questo contesto che deve muoversi il Papa e la sua diplomazia. Dopo il grande scisma del 1053 mai un Papa e un patriarca di Mosca si erano incontrati. Lo fanno Francesco e Kirill nel 2016, a Cuba. Con la benedizione di Putin. Ne esce una dichiarazione comune considerata “da dimenticare” dai cattolici ucraini. Molti dei cinque milioni di greco-cattolici dell’Ucraina – rito orientale ma piena comunione con Roma – si sentono traditi. Giudicano il Vaticano filorusso, tra l’altro timido sull’annessione della Crimea. Il Patriarcato di Mosca non perde occasione per definirli con disprezzo “uniati”. Prima, nel 2016 e ancora oggi. La corte pontificia diffonde la narrativa secondo la quale non contano i documenti ma l’incontro tra persone.

Osservava Sandro Magister, uno dei più autorevoli vaticanisti: “Francesco ha sempre fatto di tutto per non urtare il patriarcato di Mosca e la politica imperiale di Vladimir Putin, anche a costo di seminare fortissima delusione tra i vescovi, il clero e i fedeli della Chiesa cattolica della regione”.

Nelle scorse settimane nulla è cambiato. Francesco e la sua diplomazia hanno invocato la pace, invitato alla preghiera e al digiuno, stando bene attenti a mai pronunciare il nome della minaccia. La Russia, che infine ha invaso uno stato sovrano.

La dottrina Francesco sulla pace, è da lui spiegata in una delle sue interviste: “Che deve fare allora la chiesa? Mettersi d’accordo con l’una o con l’altra? (ideologia, ndr) Questa sarebbe la tentazione, e una cosa del genere restituirebbe l’immagine di una Chiesa imperialista, che non è la  Chiesa di Gesù, del servizio”. Certo il proprio credo della Chiesa è adoperarsi per la pace anzitutto con la preghiera, e sostenere i sofferenti. Ma è proprio della Chiesa istituzionale lavorare di diplomazia, altrimenti che farsene di una esclusiva Pontificia accademia ecclesiastica dove da secoli si prepara la selezionata élite della diplomazia considerata come la più raffinata al mondo? Che non siano rese pubbliche le sue mosse nel conflitto è strategico. Ma in molti sono rimasti delusi della vaticana afonia nell’evitare di evidenziare la responsabilità di Mosca richiamando invece l’impegno delle parti in causa, quando qui c’è un aggressore e un aggredito.

Per nulla afoni, invece, gli episcopati e neppure il nunzio della santa sede a Kiev. Quel che il Papa non può dire lo ha detto il 27 Il cardinale Reinhard Marx, arcivescovo di Monaco. Lo stretto collaboratore di Francesco, ospite della comunità cattolica ucraina è stato più che diretto: “Prego il Patriarca di Mosca di influenzare questo Presidente affinché la guerra finisca, perché si depongano le armi”.

Eppure nelle ultime ore molto è cambiato. Il Papa il 25 febbraio ha compiuto il passo inedito di un viaggio in Russia di pochi metri, da Santa Marta all’ambasciatore di Putin presso la Santa Sede in via della Conciliazione. Per esprimere chiaramente la sua preoccupazione per la guerra, come dice l’ufficialità, ma anche – hanno osservato molte indiscrezioni, per aprire una mediazione. Posizione subito smentita dall’ambasciatore russo e dall’agenzia Tass che hanno ricondotto il contenuto dell’incontro ad un più scontato richiamo alla pace e alla tutela dei profughi. Come aveva già fatto Kirill. Come se Bergoglio avesse bisogno di andare in ambasciata per anticipare cose che poteva dire – e ha detto – dalla finestra del Palazzo apostolico domenica all’Angelus. L’offerta di mediazione è stata invece confermata implicitamente lunedì dal segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, in una intervista concessa a un pool di giornalisti.

Certo, il Papa continua a non citare la Russia. Ma è stato bene attento a dare un segnale forte a Mosca. Ha visitato la sua ambasciata e per non generare equivoci su un ennesimo richiamo alle responsabilità di tutti, non è andato a quella ucraina. Il giorno seguente ha invece dedicato una lunga telefonata al presidente ucraino Volodymyr Zelens’kyj. Molti osservatori ortodossi ucraini hanno letto in questi passaggi un cambio di rotta vaticano. Pazienza se in Italia qualche giornalista non ha colto.

Sarà un caso, ma dopo l’incontro del Papa in ambasciata si è cominciato a parlare di negoziato Russia-Ucraina. Colloqui difficili e dall’esito eufemisticamente imprevedibile, aperti ieri in Biellorussia, dove Putin ha posto condizioni irricevibili da Kiev. Come il riconoscimento della sovranità russa sulla Crimea e la neutralità di una Ucraina che nel ’91 ha sottoscritto un Memorandum per la propria indipendenza e sovranità territoriale, rinunciando alle armi nucleari. La Russia ha firmato, garantendo indipendenza e sovranità. La Russia dal 2014 ha strappato quell’impegno.

Ora è il momento di un tentativo di dialogo. Il momento per il Papa di scegliere la strada degli appelli o della profezia, che sta, in ambito ecclesiale, riconoscere i limiti delle chiese. Francesco non può dispiacere Kirill alla vigilia di un secondo incontro col Patriarca russo non ancora fissato ma preparato per il 2022.

La frattura tra gli ortodossi spiega l’anemica reazione pubblica della diplomazia vaticana. Francesco che, forse unico leader mondiale, sovente da anni si ricorda dell’Ucraina – per il dramma umanitario, schivando il criterio politico – non chiama ancora per nome l’aggressione russa. La tentazione di chiedergliene ragione è forte. È in fondo il Papa più intervistato della storia. Si preferisce compilare arabeschi sui dispacci diffusi da una corte pontificia impegnata a pretendere per ogni papal quisquiglia profetiche parole e gesti lungimiranti; dispacci fatti di parole scontate e lunari – fratellanza la più (ab)usata – intrecciati a citazionismi da social.

Tanto che in molti abbiamo non avvertito che le parole più dure di Francesco sul conflitto, dettate domenica all’Angelus, non sono state quelle specificatamente riservate all’Ucraina, con i doverosi richiami alla pace, l’invito alla preghiera e al digiuno, alla sofferenza del popolo, in particolare degli anziani e delle madri e dei loro bambini in fuga, e l’urgenza di aprire corridoi umanitari ai profughi.

No: le parole per la diplomazia mondiale erano le precedenti, nel commento offerto al vangelo del giorno, sullo sguardo e il parlare. Non parlava di Russia e Ucraina. Sembrava però rispondere al Putin che accusa gli ucraini di nazionalismo nazista. Rilancia Bergoglio: “Troviamo sempre motivi per colpevolizzare gli altri e giustificare noi stessi”.

Traccia il suo metodo dei colloqui Russia–Ucraina. Alcuni passaggi: “Da come uno parla ti accorgi subito di quello che ha nel cuore. Le parole che usiamo dicono la persona che siamo. Con la lingua possiamo anche alimentare pregiudizi, alzare barriere, aggredire e perfino distruggere; con la lingua possiamo distruggere. Le parole corrono veloci; ma troppe veicolano rabbia e aggressività, alimentano notizie false e approfittano delle paure collettive per propagare idee distorte”.

Espressioni valide per Putin. Ma anche per la Mosca di Kirill, la Costantinopoli di Bartolomeo. La Roma di Francesco.

Back To Top