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Antonio Bassolino

Restituito l’onore a Antonio Bassolino, aspettiamo il mea culpa del Pd (che non ci sarà)

Il corsivo di Michele Magno

Diciannove processi, diciannove assoluzioni. Conosco Antonio Bassolino da una vita, e non ho mai avuto dubbi sulla sua rettitudine. Invece altri, in particolare i suoi compagni del Pd che in questi anni gli hanno voltato le spalle per codardia o perché subalterni alla cultura giustizialista, dovrebbero finalmente farsi qualche domanda. Infatti, discutiamo di Parlamenti e governi, elezioni e partiti come se fossero ancora i pilastri della vita pubblica. Non è così, o non è più solo così. In Italia il gioco democratico è ormai vistosamente condizionato da un potere di corpo che trascende il circuito del voto: la magistratura. Insieme ai media e al web, oggi costituisce l’architrave di una costituzione silenziosa in grado di trasformare le organizzazioni più solide in una cricca di malfattori.

Essa, al contrario, resta intoccabile. Pena il timore che venga messa in discussione la sua autonomia, nonostante un clamoroso scandalo che ha rischiato di travolgere proprio l’organo che doveva garantirla. È vero, non mancano le accorate considerazioni sulle lungaggini e sulle inefficienze dell’iter giudiziario. Senza però che i loro costi -sociali, economici, umani- varchino mai la soglia del piagnisteo impotente a cui si contrappone un giustizialismo ottuso. Se non intervengono le manette, il politico, l’amministratore o il manager sotto accusa entrano nel cono d’ombra di un calvario processuale di cui si perderanno presto le tracce. Salvo tornare, ma molto più marginalmente, sui giornali nel momento dell’archiviazione o del proscioglimento.

Oltre a Bassolino ne sanno qualcosa, solo per citare alcuni tra i casi più clamorosi di un elenco sterminato, Silvio Berlusconi, Romano Prodi, Ottaviano Del Turco (come si vede, è sbagliato parlare di “toghe rosse”). Di fronte a risultati così deludenti, non sorprende che qualche procura tenda a privilegiare -nella scelta dei suoi obiettivi- personalità di maggior calibro istituzionale o legate a personaggi di rilievo nazionale. Del resto, siamo in un’epoca in cui intercettazioni e documenti coperti dal segreto istruttorio vengono pubblicati ad horas dalla stampa, e in cui l’apertura di un fascicolo o un avviso di garanzia non si nega a nessuno, soprattutto se ricopre o si candida a una poltrona di sindaco, di governatore, di ministro, di leader politico.

In questa palude melmosa sguazzano il populismo penale, i verdetti emessi dal tribunale della Rete, la tentazione che la “gente” si faccia giustizia da sé. Nel tempo in cui un manipolo di aspiranti giacobini si vanta senza pudore di una legge chiamata “spazzacorrotti”, è in buona misura questa l’odierna realtà repubblicana. “Coraggio, il meglio è passato”, recita un celebre aforisma di Ennio Flaiano. Infatti, il peggio è sempre dietro l’angolo in un paese in cui c’è ancora chi preferisce un innocente in galera a un colpevole libero.

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