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Tunisia

Qual è la vera posta in gioco per l’elezione del capo dello Stato

I mercati, la politica, il governo e l'elezione del prossimo presidente della Repubblica. L'analisi di Gianfranco Polillo

 

Proprio ieri avevamo segnalato i pericoli che sono dietro l’angolo. Quel nervosismo che aleggia sui mercati finanziari, che scrutano con preoccupazione l’orizzonte: pronti a tirare i remi in barca e spostare altrove i propri investimenti. “Sudden stop”: arresto improvviso. È questo il termine tecnico che descrive l’improvviso cambio di rotta degli “hot money”. Di quei capitali erranti alla continua ricerca di un porto sicuro, che garantisca loro un rendimento adeguato al più basso rischio possibile. Ma se quest’ultimo aumenta, allora la richiesta di maggiori rendimenti, sotto forma di spread, diventa la condizione indispensabile per ancorarli ad un incerto destino. A meno che quel rischio non diventi comunque eccessivo. “Risk off”: sempre nel linguaggio dei mercati. Ed allora meglio abbandonare la partita, piuttosto che perdere il capitale investito.

Oggi è il Corriere della sera ad esprimere le stesse preoccupazioni, nell’articolo di Daniele Manca. “Lo spread torna a crescere, i mercati mandano un segnale”. La politica sarà in grado di decifrarlo e mettere in atto comportamenti rassicuranti? Almeno al momento non sembra. La discussione sul prossimo presidente della Tepubblica diventa sempre più lunare. Candidature improbabili. Rose di nomi indicate per marcare il proprio territorio. Destinate a segnare la propria posizione contrattuale. Quando addirittura solo necessarie solo per tener in piedi la baracca dei propri movimenti o partiti. In questo schema, le prime votazioni servirebbero solo a stabilire i possibili rapporti di forza: il biglietto d’ingresso per partecipare alle successive trattative. Che rischiano, tuttavia, di essere lunghe e defaticanti.

Guai a scordare i precedenti. Per eleggere Saragat e Leone ci vollero rispettivamente 21 e 23 votazioni. Per Scalfaro solo (si fa per dire) 16. Due giorni prima la strage di Capaci aveva insanguinato le strade della Sicilia, mandando a morte Giovanni Falcone, sua moglie, Francesca Morvillo e gli uomini della sua scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani. Ovviamente nessuna concordanza. Ma il segno evidente di un’intrinseca drammaticità, quale elemento caratterizzante di un atto così importante quale sarà la scelta del prossimo Presidente della Repubblica.

Tutto sarà, infatti, meno che ordinaria amministrazione. I grandi elettori saranno chiamati a decidere se l’esperimento Draghi dovrà continuare, seppure nelle forme che si renderanno possibile, oppure se si tornerà alle origini. Alla rissa permanente tra le diverse forze politiche. Ad un falso sentimento identitario destinato a prevalere sugli elementi di ragionevolezza. Ai bolsi discorsi a reti unificate. Alle conferenze stampe autocelebrative. Insomma le cose che abbiamo visto, con crescente raccapriccio, nei mesi precedenti. Quando si voleva accreditare la tesi ch’era stata l’Italia ad imprimere quella svolta che, poi, avrebbe portato alla Next generation Eu.

Proprio in questi giorni, Goffredo Bettini, intervenendo su il Foglio (“Un presidente per tornare alla politica”), prospettando un’alternativa a Mario Draghi, aveva auspicato che non si tentasse la ricerca di “una figura dai contorni incerti, scolorita, nella speranza che si rilevi sostanzialmente debole ed ininfluente sul sistema politico e proprio per questo votabile da tutti”. Difficile non essere d’accordo. Ma è l’alternativa ch’egli indica che non appare così solida, come la critica al trasformismo italiano. Basterà per questo una maggioranza diversa rispetto a quella che sorregge l’attuale Governo? Sarebbe auspicabile. Ma con un sistema politico imballato come quello italiano, le speranze sono al lumicino.

Vi fossero state queste energie non si sarebbe arrivati al Governo Draghi. Che è il terminale di una crisi durata vent’anni. Non dimentichiamo gli anni trascorsi: quel difficile rapporto che ha caratterizzato entrambi gli schieramenti politici, di destra e di sinistra: incapaci di aggredire le ragioni di fondo della crisi italiana. Ci si può accapigliare nel ricercare le relative responsabilità, che sono comuni e diffuse. E che alla fine hanno contribuito a produrre, tutte insieme, il fenomeno “5 stelle”. Dalla padella alla brace. Ma a condizione di non perdere di vista la foresta, di cui gli alberi di quella politica erano componenti essenziali.

La verità è che l’Italia è rimasta e lo è tutt’ora il Paese segnato dalle cicatrici della “guerra fredda”. Lo era nel suo impianto costituzionale: quel sistema di pesi e contrappesi pensati soprattutto per evitare che vi potesse essere una direzione politica piena nelle mani di uno dei due più grandi partiti usciti dalla Resistenza. Perché le regole di Yalta non lo consentivano. Lo era nelle strutture economiche e sociali: un consociativismo che doveva dare poco, ma a tutti: per escludere lacerazioni sociali che avrebbero potuto debordare sul terreno politico. E quindi alterare gli equilibri tra i grandi blocchi, che si contendevano l’arena. Ed ecco allora il ruolo crescente dello Stato, il distribuire risorse che non esistevano, creando quel debito pubblico che, ancora oggi, pesa sulla testa delle nuove generazioni.

Non fu semplice garantire una “democrazia progressiva” che facesse decadere, a livello di massa, i miti della Rivoluzione d’ottobre. Merito di una classe dirigente consapevole dei limiti posti al proprio operare e di uomini come De Gasperi o Togliatti, la cui intelligenza politica fu posta al servizio della pur necessaria sopravvivenza. Nella speranza di un futuro migliore. Che per divenire tale deve sciogliere gli ormeggi e riprendere il mare aperto. Dopo essersi distaccato definitivamente da quel retroterra. Questo, almeno a nostro modo di vedere, è la vera posta in gioco di queste elezioni presidenziali. Occorre una forte cesura con il passato. La soluzione Mario Draghi è lì: a portata di mano. Si vorrebbe andare oltre? Benissimo. I nostri più fervidi auguri.

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