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Tunisia

Il nuovo feudalesimo di Putin

L’analisi di Gianfranco Polillo.

La storia, come sempre accade, alla fine si prende le sue rivincite. Ingenuamente si può pensare di deviarne il corso. Di accelerarne le tappe, facendo leva su un disegno pensato a tavolino. Ma alla fine la risacca non fa altro che cancellare le orme lasciate su quel bagnasciuga. I bolscevichi, guidati da Lenin, all’inizio del “secolo breve”, pensavano che la Russia potesse saltare la fase dello sviluppo capitalistico per proiettarsi verso quel “nuovo mondo” – il socialismo realizzato – ch’era la grande utopia del momento. Vi riuscirono solo grazie ad una particolare congiuntura – quella della “Grande guerra” – in cui tutti gli orrori dell’imperialismo, “fase suprema del capitalismo”, facevano mostra delle proprie drammatiche interne contraddizioni.

Si pensò allora che capitalismo era solo accumulazione privata, appropriazione del plusvalore prodotto dalla classe operaia. E non presupposto per lo sviluppo di quella democrazia che, in tutto l’Occidente, dopo aver posto fine alle dinastie imperiali, ne avrebbe caratterizzato l’essenza, dopo la tragica esperienza rappresentata dal nazismo e dal fascismo. A sua volta conseguenza di cause complesse: dalla miopia di quelle classi dirigenti ch’erano uscite vittoriose dalla guerra, al duro conflitto di classe che aveva accompagnato il ritorno alla pace, soprattutto in alcuni Paesi, come l’Italia e la stessa Germania. Paesi in cui l’idea di “fare come in Russia” aveva mobilitato le coscienze degli ultimi, spingendoli verso moti di carattere insurrezionale: a loro volta repressi dall’alleanza inedita delle squadracce nere con gli apparati repressivi dello Stato.

Nella Russia di Stalin il vano tentativo fu quello di sostituire le forze del mercato con il comando dello Stato centrale. Quell’idea di una programmazione integrale in cui dal centro si potesse decidere quali beni produrre e come distribuirli. Quei piani quinquennali in cui tutto si irreggimentava, sottoponendo ogni cosa al controllo di un’occhiuta burocrazia, pronta ad intervenire ogni qual volta i singoli obiettivi non venivano rispettati. Fino a denunciare veri e propri reati di sabotaggio, da reprimere duramente. E poco importava se il popolo preferiva il burro ai cannoni. Non aveva voce in capitolo e quando protestava, com’era avvenuto in Ungheria o in Cecoslovacchia, l’intervento delle truppe corazzate era pronto a ripristinare un ordine violato. Dando la colpa alle oscure manovre della Cia o delle altre cancellerie occidentali.

Scelte comunque destinate ad isolare sempre più il Paese dal resto del mondo. Se quel sistema poteva avere una sorta di logica per l’organizzazione del mercato interno, crollava totalmente quando si prendeva in considerazione il mercato mondiale con il gioco delle importazioni e delle esportazioni. Il cui intrinseco dinamismo, frutto delle preferenze individuali, sfuggiva a qualsiasi determinismo a priori, essendo un risultato che nemmeno la debordante burocrazia di Mosca poteva pensare di imbrigliare. Ed in effetti lo scambio, non solo di merci, ma di uomini, di capitali e di idee, si dimostrò impraticabile. Ed i normali rapporti commerciali che caratterizzavano il resto del Mondo – compresi quelli tra Paesi sviluppati e sottosviluppati – sostituiti dalla pura potenza di uno Stato, capace con i suoi mezzi finanziari – l’oro di Mosca – di incidere sulle scelte politiche dei Paesi limitrofi. Corrompendo uomini e partiti politici.

Il socialismo come strumento per amministrare la miseria, l’esatto contrario dell’esperimento cinese, ed, al tempo stesso, come ricordava “Il Manifesto”, “la Russia come uno stato vivente, organico-storico, unico, russo-ereditario, con la sua fede speciale, con tradizioni e bisogni speciali” per riprendere le parole di Ivan Aleksandrovic Il’in, il filosofo nazionalista, grande ammiratore di Mussolini ed Hitler, tanto amato sia da Putin che dal Patriarca Kirill, capo della Chieda ortodossa di Mosca. Santa madre Russia come entità quasi metafisica contro un Occidente decadente e corrotto destinato a soccombere grazie al baluardo di una fede più che religiosa dai fondamenti quasi panteisti.

Il tutto riflesso e conseguenza di un modello di crescita costretto ad organizzare l’accumulazione primitiva di capitale con gli strumenti della coercizione statale, anziché rispettare i tempi ed i ritmi dell’organizzazione capitalistica. La distruzione dell’agricoltura e dei contadini nelle continue purghe staliniane, nel vano tentativo di accrescere un benessere collettivo che fosse competitivo rispetto all’Occidente. Da qui l’inevitabilità della scelta tra il produrre burro – i beni di consumo – o cannoni: quella potenza militare destinata, al tempo stesso, ad essere fiore all’occhiello del regime e strumento necessario per alimentare la psicosi verso un Occidente denunciato come aggressivo e pronto a colpire.

Alla lunga, quelle scelte non potevano che mostrare tutta la loro intrinseca debolezza, destinata ad emergere con il collasso del regime, nel 1989. Un vero e proprio dramma se si considera lo scarto che tuttora esiste, in Russia, tra la grande ricchezza di quelle terre e l’incapacità sistemica del regime di poterla, in qualche modo, utilizzare. Nel sottosuolo russo esiste il più grande giacimento di gas naturale mai scoperto: pari secondo i calcoli a 48mila miliardi di metri cubi. Al tempo stesso le sue riserve di petrolio sono le ottave del mondo, con una capacità pari a 80 miliardi di barili. Un utilizzo intelligente di queste risorse avrebbe consentito il diffondersi di un benessere generalizzato, considerato il rapporto esistente tra un territorio immenso ed una popolazione che non arriva ai 150 milioni di individui.

Ed invece l’ignavia dei suoi gruppi dirigenti è stata imperdonabile. Non sono riusciti nemmeno, stando alle osservazioni del Fondo monetario, a gestire con spirito manageriale il commercio dei prodotti petroliferi. I cui prezzi, nonostante i bassissimi costi di produzione (superiori solo all’Arabia Saudita), non hanno seguito l’evoluzione della domanda, ma rimasti stabili: pura rendita destinata ad alimentare soprattutto le ricchezze smisurate di un pugno di oligarchi. Mentre, nelle zone più sperdute di un Paese grande come un continente, gran parte del popolo moriva letteralmente di fame. O comunque era costretto ad una vita di stenti e di immani privazioni.

A tutto ciò esiste solo una possibile spiegazione. La Russia di Putin, salvo alcune piccole enclave come Mosca o San Pietroburgo, ha conservato una sua struttura di tipo feudale. Con gli oligarchi, nominati direttamente dal nuovo zar, Vladimir Putin, al posto di quei nobili che, in passato, frequentavano la corte dei Romanov. E, come tutte in tutte le vecchie strutture feudali, non c’é pietà per il popolo. O meglio per quei servi della gleba costretti solo ad ubbidire e trasformarsi, quando occorre, in carne da cannone, come sta avvenendo in Ucraina. Durerà? Difficile rispondere. Finora Putin é andato avanti, mentre l’Occidente faceva finta di non vedere. Ma la nuova guerra di Crimea ha cambiato questa percezione. E domani sarà già un altro giorno.

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