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Perché serve cambiare le regole dell’Eurozona dopo il fragile compromesso fra Italia e Bruxelles. L’analisi di Polillo

Se né l'Italia né la Francia, benché guidati da politiche di segno opposto, sono riusciti nell’intento di rispettare le regole europee, qualcosa deve pur significare. Che forse i problemi sono altrove. In un assetto complessivo dell’Eurozona sempre più inadeguato. L'analisi di Gianfranco Polillo

Tutto è bene quel che finisce bene. L’intesa tra l’Italia e Bruxelles, sempre che quel fragile compromesso regga, è cosa buona. Evita un sacco di guai al nostro Paese, ma consente anche alla Commissione di chiudere un periodo non proprio brillante, in cui gli umori più profondi, che non sono mai quelli più nobili, hanno dominato la scena, da entrambe le parti. Da domani in poi, archiviata la pratica Italia, ma non il dossier Francia, occorrerà riprendere fili di ragionamenti da troppo tempo accantonati. Quelli relativi al senso dell’Europa, dello stare insieme, con quali prospettive e con quali obiettivi.

Lo richiede una dose normale di realismo. Basta guardare ai fatti più recenti, a partire dalla Brexit e dai guai in cui si sono cacciati gli Inglesi. Forse si potevano evitare se lo strumento micidiale del referendum fosse stato maneggiato con cura. Ma se la stessa Unione Europea nei confronti della Gran Bretagna e non solo si fosse comportata meglio. Ma subito dopo viene l’Italia. Mesi e mesi di tira e molla, che hanno fatto soprattutto il gioco dei ribassisti, sia in Borsa che sugli altri mercati finanziari. Voci sgradevoli: “Piccoli mussolini” e “inviti alla sobrietà contro l’abuso di alcol”. Cose da dimenticare, per sperare che quel deficit al 2 per cento sia alla fine il ramoscello d’ulivo che è preludio di una pace ritrovata. Anche se si deve prendere atto che la linea del Piave non ha retto. Il Fiscal Compact ha subito una cocente sconfitta.

Non solo dall’Italia, ma in terra di Francia. La capitolazione del “giovane principe che credeva di poter camminare sulle acque”, secondo l’immagine della stampa parigina, creerà un precedente ancora più pericoloso. Le concessioni annunciate da Macron costeranno circa 10 miliardi. Il deficit di bilancio che nel 2019 era già previsto al 2,8 per cento, schizzerà oltre il 3 per cento. Annullando del tutto quanto di buono, secondo Bruxelles, era stato fatto nel 2017 e (forse) l’anno successivo. Quando il deficit era sceso sotto l’asticella dei parametri di Maastricht. Evento, per la verità eccezionale, ed in controtendenza rispetto a tutto il periodo post crisi. Anni in cui quelle colonne d’Ercole erano state sempre superate.

L’interrogativo, che angosciava i francesi, ed ora deve preoccupare Bruxelles, è semplice da formulare. La Francia è la seconda potenza europea. Una storia, soprattutto un passato recente, che l’ha vista come protagonista nella costruzione stessa dell’Europa. Basti pensare a Jacques Delors, che è stato l’architetto della complessa intelaiatura che ha portato alla nascita dell’euro. Una Nazione che, ancora oggi, vive nel culto della grandeur, pronta ad ogni possibile sacrificio per difendere la sua collocazione nel grande firmamento della storia moderna, nata dalla sua antica rivoluzione. Ebbene: se per dieci anni, la Francia non è riuscita a coniugare sviluppo economico (più alto che in Italia) con la stabilità finanziaria (anche questa più precaria di quella italiana) qualche problema di fondo, nel modello di governance pensato in quel di Bruxelles, vi deve pur essere. E se, si può ancora aggiungere, i mercati hanno sempre trattato con i guanti gialli i titoli di Stato francesi (che sono più o meno quanto quelli italiani), in termini di spread, quest’elemento dovrebbe ulteriormente accentuare i possibili dubbi.

Finora queste criticità non sono emerse con la necessaria chiarezza. Sono rimaste appannaggio di una ristretta élite di iniziati. Ma la politicizzazione dello scontro – scontro politico tra l’Italia e la Commissione e scontro sociale tra i Gilet gialli e Macron – ha acceso un faro che sarà difficile spegnere per ricacciare il tutto nel dimenticatoio. La Francia ha reagito alla crisi del 2008, sull’onda del suo più antico colbertismo. Forte presenza dello Stato centrale, incentivi agli investimenti e capacità di comando di un’élite che ha curato fin troppo i propri specifici interessi, dimenticandosi degli altri. Come hanno dimostrato le sommesse che hanno scosso il Paese.

Da un punto di vista strettamente economico, la politica seguita è stata quella di puntare, soprattutto, su una maggiore crescita del Pil, per colmare, nel modo più rapido possibile, il vuoto che la più grave crisi degli ultimi 100 anni (Mario Draghi) aveva determinato. Quindi soprattutto stimoli alla domanda interna per spingere le imprese ad investire. E poco importava se non tutte reggevano alla concorrenza internazionale. Quella stessa domanda poteva essere soddisfatta da crescenti importazioni, anche a costo di segnare in rosso i suoi conti con l’estero. Cosa che si è verificata con una continuità impressionante.

La scelta italiana è stata opposta. Deflazione, caduta della domanda interna e rilancio, sebbene più contenuto dell’economia, grazie al veicolo potente delle esportazioni. Quindi stretta darwiniana per quelle imprese che ormai si collocavano fuori mercato. Un crollo di circa il 25 per cento del potenziale produttivo ante crisi. Anche in questo caso, uno schema collaudato in un lontano passato – l’epoca della Ricostruzione industriale del dopoguerra – ma continuamente rinverdito. Fu quella la strada, dopo la crisi del ’93, che consentì all’economia italiana di riprendersi e partecipare, seppure in modo sofferto, alla nascita dell’euro.

Due modelli opposti. Ma nessuno dei due è riuscito a risolvere il problema di un ordinato assetto finanziario. Tant’è che su entrambi i Paesi – non potrebbe essere altrimenti – incombe una procedura d’infrazione. Su questa contraddizione oggettiva è necessaria avviare una riflessione. Se nessuno dei due Paesi, benché guidati da politiche di segno opposto, è riuscito nell’intento di rispettare le regole europee, qualcosa deve pur significare. Che forse i problemi sono altrove. In un assetto complessivo dell’Eurozona sempre più inadeguato. La cui logica intrinseca non produce più quella convergenza tra i Paesi membri ch’era il fondamento non solo economico, ma politico, della sua stessa esistenza.

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