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Madre Russia

Noterelle sulla Santa Madre Russia

Il Bloc Notes di Michele Magno

 

Come ha osservato Vittorio Strada in un saggio magistrale da cui sono tratte queste note (Impero e rivoluzione, Marsilio, 2017), la data di nascita dell’impero russo non è univoca: all’anagrafe storica risulta ufficialmente registrata il 22 ottobre 1721, quando a San Pietroburgo Pietro I (1672-1725) venne solennemente proclamato imperatore, assumendo insieme i titoli di “Grande” e “Padre della patria”. In realtà, quella incoronazione sanciva l’esistenza di un impero ante litteram, che da questo zar era stato profondamente potenziato e trasformato. Infatti un altro zar, Ivan il Terribile (1530-1584), ne era stato, se non il creatore, il codificatore, colui nel cui potere l’opera di riunificazione delle “terre russe” sotto l’egida di Mosca compiuta dai suoi predecessori era confluita, “ricevendo da lui un ulteriore impulso e la consapevolezza di costituire una potenza che non si può non definire imperiale.

In quell’impero ante litteram che era il regno moscovita, a partire dalla metà dell’Ottocento si affermò uno specifico nazionalismo russo parallelamente ad altri nazionalismi di popoli componenti l’impero, come il polacco e l’ucraino, che rivendicavano la propria identità e autonomia, dando vita a un insieme di “questioni nazionali” che mettevano in pericolo la compattezza del sistema imperiale, poi distrutto e ricreato dalla rivoluzione d’Ottobre.

Tornando al periodo di formazione dell’impero, l’espressione “impero degli zar” è appropriata in quanto fu il potere zarista a costituirlo, unificando russi e non russi in una totale soggezione all’autocrazia. Ivan il Terribile si sentiva investito di un potere assoluto direttamente da Dio, il che gli faceva considerare i suoi sudditi servi o schiavi (“cholopy”) di cui egli era insindacabile e illuminato padrone. Questo impero non ancora ufficialmente tale era figlio di due altri grandi imperi poi scomparsi dalla scena storica: quello mongolo, sotto il cui dominio Mosca e gli altri principati russi erano stati nei secoli XIII-XV, e quello bizantino, del cui influsso spirituale è pervasa la cultura russa, ricevendo dal primo la formazione dello Stato e dal secondo il credo del cristianesimo.

La conversione al cristianesimo della Russia, che Stalin reputava positiva non per motivi religiosi (ovviamente), ma perché aveva favorito l’unificazione del paese e il suo ingresso nel mondo europeo, fu un’iniziativa presa dall’alto dal granduca di Kiev Vladimir (988). Il “battesimo” di quelle popolazioni predeterminò lo sviluppo storico successivo della Russia. Infatti, se da una parte l’adozione del cristianesimo demarcava la Russia dall’Asia e la avvicinava all’Europa, dall’altra, essendo quel cristianesimo greco “orientale”, la staccava dal cristianesimo europeo-occidentale “latino”. E, quando l’originaria unità cristiana si spezzò, le diversità tra le due confessioni si acuirono fino alla scissione (1054).

Dopo la caduta di Costantinopoli per mano turca (1453), il cristianesimo ortodosso diventò una sorta di religione nazionale russa, mantenendo però tutto il suo valore universale: la Russia si proponeva come la roccaforte e il santuario della fede vera, e lo zar (Ivan il Terribile) come il “defensor fidei” contro l’occidente latino falsamente cristiano. In questo senso, l’impero russo nella sua fase iniziale era un impero sacrale, un assolutismo teocratico nutrito di odio teologico contro un occidente corrotto.

Con Pietro il Grande, tuttavia, l’espansione geopolitica dell’impero subisce una trasformazione. Il sovrano capisce che la Russia non è il centro del mondo in quanto unico Stato ortodosso, e che centrale era invece l’Europa, civiltà impura ma dinamica e evoluta in senso tecnico e intellettuale. La cultura politica della Russia, insomma, doveva mutare, secolarizzandosi. La straordinaria espansione dell’impero sotto Pietro e la sua erede Caterina II (1729-1796) si accompagna così al passaggio da una realtà quasi esclusivamente russofona a una realtà cosmopolita. Realtà gigantesca e composita dal punto di vista etnico-nazionale, ma insieme unitaria grazie a una poltica che alla forza della repressione univa la lusinga dell’integrazione, cooptando le élite nazionali nelle alte sfere dell’amministrazione statale. Strategia che entrò in crisi quando il potere autocratico centrale cominciò a indebolirsi sotto la spinta dell’opposizione rivoluzionaria all’interno, e all’esterno sotto l’urto di tracolli militari come quello della guerra col Giappone per il controllo della Manciuria e della Corea (1904-1905).

Due avvenimenti segnano l’inizio del tramonto dell’impero sovietico. Il primo fu il XX congresso del Pcus nel 1956 e la denuncia che Nikita Chrusciov fece del “culto della personalità” di Stalin. La morte del successore di Lenin nel 1953, liberò la classe dirigente sovietica dalla minaccia di una ripetizione del 1937, cioè di una epurazione violenta del vertice del potere politico e burocratico. La “guerra fredda” all’interno dell’Urss fu un’epoca di aspre trasformazioni, sulla scia della precedente politica nazional-comunista esaltata dalla vittoria contro il nazismo. Chrusciov capì che sarebbe diventato leader del regime se avesse garantito gli interessi del ceto dirigente dell’impero sovietico, la burocrazia, e l’incolumità del vertice del partito. Con l’estromissione di Stalin dall’altare marxista-leninista, esso fu sottoposto a un lungo processo di desacralizzazione, al quale non poteva porre argine il potenziamento del culto alternativo di Lenin.

Con Chrusciov, riformatore non per vocazione ma per necessità, e comunque ben  lontano dall’idea di passare dal sistema totalitario alla società aperta, iniziava dunque quel processo critico che avrebbe travolto il pantheon ideologico del “socialismo realizzato”. Il collasso sarebbe avvenuto con la perestrojka, anche qui malgrado le intenzioni di Michail Gorbaciov, che avrebbe voluto salvare sistema e ideologia riformando l’intero edificio del regime, ma di fatto ne minò le fondamenta facendo crollare l’impero. Il disastro di Chernobyl assestò il colpo di grazia.

L’altro avvenimento che segna il tramonto dell’impero sovietico è la guerra afghana, intrapresa con ambizioni imperiali e in nome di un intervento a favore delle forze “progressiste” locali, tanto che si parlava dell’Afghanistan come di una possibile sedicesima repubblica dell’Urss. Iniziata nel 1979, si chiuse ingloriosamente dieci anni dopo. Inoltre, quando nell’ultimo periodo della perestrojka venne concessa la glasnost, la libertà d’espressione (interdetta fin dall’ottobre 1917), cadde l’ultima barriera. Fallito il maldestro colpo di Stato nell’agosto 1991, la compagine mutinazionale sovietica si sciolse come neve al sole.

La volontà delle repubbliche baltiche e, soprattutto, dell’Ucraina di riacquistare la perduta indipendenza, la caduta del muro di Berlino: non c’è qui bisogno di ripercorrere la cronaca del disfacimento del sistema sovietico. Basti ricordare che esso si svolse sullo sfondo dell’erosione della legittimità del potere politico totalitario e della caduta dei prezzi del petrolio, dai quali all’inizio degli anni Ottanta dipendeva lo stato del bilancio, del mercato dei beni di consumo e della bilancia dei pagamenti.

Un protagonista di quegli anni, Egor Gajdar (primo ministro nel 1992 in sostituzione di Boris Eltsin), nella prefazione al suo libro La fine dell’impero avanza una analogia tra la Russia postsovietica e la Repubblica di Weimar. Un confronto illuminante, pur tenendo conto delle debite differenze tra la Russia dopo il crollo del 1991 e la Germania dopo la disfatta del 1918, tra l’avvento del nazismo e la nascita di un potere fortemente autoritario, seppure formalmente democratico, ma attualmente in una fase caratterizzata da tendenze totalitarie.

Lo stiamo vedendo in questi giorni, con l’Ucraina invasa dai blindati di Vladimir Putin. Si delinea infatti il disegno di un ancronistico quarto impero russo territoriale con ambizioni egemoniche europee, che con un termine in cui geografia e ideologia si fondono può essere chiamato “eurasiatico”. Di contro a questa prospettiva, inquietante per i suoi aspetti militari esterni e involutivi interni, data anche l’attuale ripresa del mito di Stalin come artefice della grande potenza russa, non si può escludere una complessa prospettiva opposta: una disgregazione dell’odierno assetto federativo della Russia, come effetto di una stagnante politica autoritaria. Del resto, la storia è piena di eterogenesi dei fini.

 

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