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Consulenza

Il Financial Times inchioda (di nuovo) McKinsey sulla Cina

Prosegue la saga tra McKinsey e il Financial Times: la società di consulenza nega di aver lavorato per il governo cinese come scoperto dal quotidiano britannico, che però rinforza lo scoop con nuove rivelazioni. Tutti i dettagli.

A pochi giorni dal precedente c’è già un nuovo colpo di scena nella saga cinese di McKinsey, accusata con prove fornite dal Financial Times di aver consigliato il governo di Pechino anche in questioni strategiche. Sbuca adesso un vecchio sito web che inchioda la società di consulenza e fornirà sicuramente nuove cartucce a chi in questi giorni ha chiesto a gran voce di escludere McKinsey da ogni tipo di fondo pubblico.

Solo una settimana fa

Come riferì a suo tempo Start Magazine, era stato il Financial Times a svelare pochi giorni fa che la società di consulenza americana aveva scritto nel 2015 tramite il think thank collegato Urban China Initiative un libro su commissione dell’agenzia di pianificazione del governo centrale di Pechino in cui McKinsey offriva dettagliati consigli che servirono poi, molto probabilmente, per stendere il piano “Made in China 2025” che contribuì all’aumento delle tensioni tra Pechino e Washington.

La smentita controsmentita

McKinsey aveva negato tutto già prima, ossia il 6 febbraio al Congresso Usa durante l’audizione del suo global managing partner: “non lavoriamo, e per quanto ne sappia io non l’abbiamo mai fatto, per il Partito comunista cinese o per il governo centrale della Cina”, ha detto al Campidoglio Bob Sternfels.

Ma ora il Ft aggrava il quadro indiziario con un nuovo scoop uscito ieri. Risbuca infatti dall’oltretomba di internet il vecchio sito web di McKinsey China, offline dal 2019, dove la società dichiarava testualmente che “solo nello scorso decennio abbiamo servito oltre venti diverse agenzie del governo centrale, provinciale e municipale”.

I materiali allestiti da McKinsey per i suoi clienti cinesi sottolineavano che la società “ha consigliato diversi ministeri del governo centrale su un’ampia gamma di temi ad alto impatto”.

L’imbarazzo

Messa all’angolo, McKinsey continua a negare, sostenendo che quel “sito defunto” non solo “non era parte di McKinsey.com (ma) conteneva rappresentazioni non accurate dei nostri servizi ai clienti”.

“Confermiamo le nostre precedenti dichiarazioni”, è quanto ha dichiarato la società al Ft: “il governo centrale della Cina non è attualmente, e da quanto ne sappiamo non lo è mai stato, un nostro cliente”.

L’affondo dei parlamentari (repubblicani)

Gli scoop del Ft hanno partorito subito effetti tra le fila dei deputati e dei senatori a stelle e strisce dell’Elefantino, che ora vogliono escludere McKinsey da ogni tipo di contratto con il governo Usa.

“Compagnie che supportano gli eserciti dei nostri avversari o gli abusi dei diritti umani non dovrebbero ricevere contratti pagati con i soldi dei contribuenti americani”, ha dichiarato il presidente della Commissione Esteri della Camera Michael McCaul.

Per il vicepresidente della Commissione Intelligence del Senato Marco Rubio, ugualmente, “a questo punto è impossibile giustificare qualsiasi contratto di McKinsey con il governo Usa”.

“A compagnie come McKinsey che aiutano il Pcc nel suo sforzo di distruggere la libertà individuale e la leadership globale americana dovrebbe essere impedito di ricevere i soldi dei contribuenti”, è stato l’affondo del presidente repubblicano della Commissione della Camera sulla Cina.

Tanta grana

Deve essere pesante lo stato d’animo nel quartier generale di McKinsey, visto che, come ricorda qualcuno citando i dati di USAspending.gov, dal 2008 la società ha ricevuto almeno 450 milioni di dollari dal solo Pentagono, mentre secondo il Ft nello stesso periodo di tempo i contratti del governo centrale affidati a McKinsey hanno comportato esborsi per circa un miliardo.

Nell’ultimo anno fiscale, ricorda ancora la testata finanziaria, il governo federale ha sborsato oltre 100 milioni per McKinsey, di cui 63 dal solo Pentagono.

Potendo contare su entrate complessive annue di circa 16 miliardi, la società potrebbe anche fare a meno di quei soldi. Ma il danno reputazionale c’è, e potrebbe benissimo riverberarsi sul bilancio di una compagnia che, in un modo o nell’altro, è sinonimo di America.

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