“Non cerchiamo di disaccoppiare la nostra economia da quella della Cina. Una separazione totale delle nostre economie sarebbe disastrosa per entrambi i paesi. Sarebbe destabilizzante per il resto del mondo”. Le parole della segretaria del Tesoro degli Stati Uniti, Janet Yellen, pronunciate giovedì alla Johns Hopkins School of Advanced International Studies, sono fondamentali per comprendere l’approccio dell’amministrazione di Joe Biden verso Pechino: la rivalità politica tra le due potenze per la guida dell’ordine internazionale va sfogata e risolta attraverso una competizione economica, e non un conflitto armato; ma anche questa competizione deve essere circoscritta ad alcuni settori critici, possibilmente senza compromettere il grosso della relazione commerciale.
IL COMMERCIO RECORD TRA STATI UNITI E CINA
L’America e la Cina sono partner commerciali fondamentali l’una per l’altra. Nel 2022, peraltro, gli scambi bilaterali hanno raggiunto la cifra record di 690,6 miliardi di dollari, nonostante le tensioni e i dazi.
Wendy Cutler, vicepresidente dell’Asia Society Policy Institute e già vice-rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti, aveva spiegato al Nikkei Asia già mesi fa che “sebbene si possa verificare un disaccoppiamento”, o decoupling, tra Washington e Pechino “in alcune aree di prodotti strategici”, come i microchip e i metalli critici, “altri settori rimangono inalterati, tra cui un’ampia varietà di prodotti manifatturieri e agricoli”.
LE PAROLE DI YELLEN
Anche Yellen ha respinto l’idea del decoupling, affermando al contrario che “una Cina in crescita che gioca secondo le regole può essere benefica per gli Stati Uniti. Ad esempio, può significare un aumento della domanda per i prodotti e i servizi americane, e industrie americane più dinamiche”.
“Commerciamo più con la Cina che con qualunque altro paese, a eccezione di Canada e Messico”, ha ricordato la segretaria. Invertendo le parti, gli Stati Uniti sono i primi partner commerciali della Cina. “Le imprese americane hanno ampie operazioni in Cina. Centinaia di aziende cinesi sono quotate sulle nostre borse”.
NO AL DECOUPLING, MA NEMMENO SÌ ALL’ENGAGEMENT SENZA LIMITI
Il rigetto del decoupling totale non significa però che non vi sia una competizione economica tra le due nazioni – una “competizione salutare”, precisa Yellen – o che non esistano aree di frizione. “Abbiamo chiarito che la salvaguardia di alcune tecnologie dall’apparato militare e di sicurezza della Repubblica popolare cinese è di vitale interesse nazionale […]. Le azioni del governo statunitense possono assumere la forma di controlli sulle esportazioni”, esattamente come quelli imposti sul commercio verso la Cina di tecnologie avanzate per i microchip.
– Leggi anche: La guerra tecnologica Stati Uniti-Cina ribalterà la globalizzazione
Scott Kennedy, esperto di Cina presso il think tank americano CSIS, ha spiegato a Reuters che l’amministrazione Biden non ha intenzione “di ritornare alle precedenti politiche di coinvolgimento incondizionato”, quelle che nel 2001 portarono all’ingresso di Pechino nell’Organizzazione mondiale del commercio dietro sostegno di Washington, che sperava di “occidentalizzare” il paese.
Secondo Kennedy, il discorso di Yellen “è stato piuttosto duro e non apologetico sugli sforzi degli Stati Uniti per difendere la sicurezza nazionale e i diritti umani”.
LA MOSSA DI BIDEN CONTRO I FLUSSI DI CAPITALE
A conferma della linea strategica generale degli Stati Uniti, Bloomberg scrive che nelle prossime settimane – forse in prossimità del vertice del G7 del 19 maggio – il presidente Biden firmerà un ordine esecutivo per limitare gli investimenti delle aziende americane nei settori più critici dell’economia cinese: semiconduttori, intelligenza artificiale, computing quantistico.
– Leggi anche: Gli Usa vogliono isolare la Cina sul computing quantistico
In sostanza, oltre a controllare le esportazioni di tecnologie, la Casa Bianca vuole porre un freno anche ai flussi di capitali americani – venture capital, private equity e joint venture – verso i settori high-tech della Cina, in modo da complicare gli sforzi del paese per l’innovazione industriale.
Bloomberg specifica che queste nuove limitazioni agli investimenti verranno giustificate con la tutela della sicurezza nazionale (impedire il progresso tecnologico delle forze armate cinesi, cioè): un punto sul quale, non a caso, la segretaria Yellen ha insistito parecchio nel suo discorso alla Johns Hopkins.
Nel 2021 le aziende statunitense hanno investito in Cina all’incirca 120 miliardi di dollari; circa la metà della cifra si è diretta verso l’industria manifatturiera. Nel 2022, però, per effetto delle sempre maggiori tensioni bilaterali, la quota di operazioni effettuate da investitori americani di private equity che prevedevano l’acquisto di partecipazioni in società cinesi si è ridotta a un quarto di quella che era dieci anni prima: lo dicono i dati di PitchBook, una società specializzata.
QUANTO CONTA LA CINA PER LE AZIENDE AMERICANE
Quando Yellen dice che la domanda cinese può essere benefica per le aziende americane, dice il vero. Come ricostruito oggi sul Sole 24 Ore da Fabio Scacciavillani e Alberto Forchielli, nel 2021 la Cina è fruttata a Intel (realizza semiconduttori) quasi 23 miliardi di dollari, contro i 14,3 miliardi del mercato statunitense; nel 2022 il contributo cinese è sceso a 17 miliardi, comunque superiore ai 16,5 miliardi del mercato domestico. Per Qualcomm e Texas Instruments, altre due aziende del settore, le vendite in Cina sono valse il 60 e il 55 per cento del fatturato del 2022.
Nel 2022 Tesla, che produce veicoli elettrici, ha venduto in Cina quasi 550.000 unità, contro le circa 570.000 del mercato americano.
“Un settore che da tempo agogna a espandersi in Cina”, scrivono Forchielli e Scacciavillani, “è la finanza”, ovvero società come BlackRock, JPMorgan e Goldman Sachs, ad esempio. L’imminente ordine esecutivo di Biden, però, potrebbe spegnere queste speranze.