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Il significato politico della campanella passata da Draghi a Meloni

Considerazioni a margine della tradizionale cerimonia del passaggio di consegne tra il Presidente uscente, Mario Draghi, e il Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni. Il corsivo di Francesco Damato

 

La campanella del Consiglio dei Ministri è dunque passata davvero di mano, e di genere. Mario Draghi, che aveva ricevuto personalmente Giorgia Meloni aspettandola alla fine della scalinata di Palazzo Chigi, percorsa a piedi dall’interessata dopo avere ricevuto nel cortile gli onori militari, l’ha consegnata con aria soddisfatta e sollevata, orgogliosamente consapevole di avere fatto al meglio il suo lavoro con tutti i ministri che lo avevano affiancato. A cominciare naturalmente, ma direi anche significativamente, da Giancarlo Giorgetti, l’unico rimasto nella nuova compagine, e in un ruolo ancora più importante: da ministro dello Sviluppo Economico a ministro dell’Economia e Finanza, in qualche modo sponsorizzato pubblicamente, con dichiarazioni di apprezzamento, dal predecessore Daniele Franco.

Questa conferma e insieme promozione di Giorgetti, vice segretario della Lega di Matteo Salvini, per suo conto vice presidente del Consiglio e ministro delle Infrastrutture, è un po’ emblematica della continuità sostanziale, se non addirittura fondamentale, fra i due governi. Il nuovo, cui pure Giorgia Meloni come leader della destra costituita da Fratelli d’Italia, si era opposta nella legislatura scorsa, ha ereditato dal vecchio la politica estera, sempre importante ma in modo particolare in questi tempi di guerra in Europa con l’aggressione della Russia all’Ucraina, e i conti custoditi da Draghi con la competenza riconosciutagli a livello mondiale, specialmente alla luce della sua esperienza al vertice della Banca centrale europea, a Francoforte. Solo certi sapientoni italiani nostalgici del doppio passaggio, a maggioranze opposte, di Giuseppe Conte a Palazzo Chigi per conto del movimento grillino ora da lui stesso presieduto, glielo hanno ostinatamente contestato, sino ad irriderlo. La consistenza dell’eredità è stata d’altronde confermata dalla lunghezza del colloquio svoltosi fra i due presidenti prima dello scambio delle consegne con la campanella.

Il futuro di Draghi, sorridente e commosso da gran signore all’arrivo e alla partenza da Palazzo Chigi fra un lungo elenco di emergenze, ma anche da tutti gli appuntamenti internazionali di cui è stato padrone di casa o ospite, dal G20 di Roma l’anno scorso al Consiglio Europeo dei giorni scorsi; il futuro di Draghi, dicevo, peraltro cattolico praticante, è nelle mani di Dio. E non solo in quelle del presidente americano Joe Biden, di cui tutti ormai conoscono, al di qua e al di là dell’Atlantico, il desiderio di vederlo non più tardi dell’anno prossimo al vertice della Nato.

Anche il futuro di Giorgia Meloni, cattolica praticante pure lei, orgogliosa anche in piazza della sua fede religiosa, con tutte le prolunghe e cadute sociali e politiche tradotte da Repubblica nei giorni scorsi nel titolo di “Patria e famiglia” dedicatole in chiave critica, è nelle mani di Dio. Ma anche, naturalmente, delle sue per la capacità che saprà dimostrare di governare concretamente. Dovrà farlo peraltro dovendosi paradossalmente guardare – forse anche come potrà emergere dal dibattito parlamentare sulla fiducia nei prossimi giorni, fra Camera e Senato – più dagli alleati di centrodestra che dalle opposizioni già incapaci di fronteggiare unite prima, durante e dopo la campagna elettorale la sua dichiarata scalata al vertice della classifica dei partiti e, conseguentemente, a Palazzo Chigi nella logica e nei meccanismi della legge che porta il none maccheronicamente latino di Rosatellum. Una legge che proprio le opposizioni hanno voluto lasciare in vigore, neppure tentando davvero di modificarla, pur dichiarandosene ora vittime. Un altro dei paradossi della politica italiana.

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