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G20, arriva la Global Minimum Tax (e quel precedente della nostra Antitrust)

L'articolo di Emanuela Rossi

 

È uno dei temi caldi al tavolo del G20 che comincia oggi a Venezia e che vede riuniti fino all’11 luglio i ministri economici e i governatori delle banche centrali dei 20 Paesi più industrializzati.

Si tratta dell’aliquota minima al 15% a livello globale dell’imposta sulle multinazionali, la cosiddetta Global Minimum Tax, portata alla ribalta ad aprile dal presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, e di cui si è già discusso al G7 che si è svolto a Londra a inizio giugno.

Solo poche ore fa il segretario di Stato americano, Janet Yellen, ha ribadito l’importanza di discutere della tassa dopo che la scorsa settimana i 130 Paesi dell’Ocse hanno dato il via libera all’accordo che ridisegnerà il sistema di imposizione fiscale mondiale e obbligherà le grandi società – a partire dalle Big tech come Apple, Amazon e Facebook – a pagare le tasse laddove operano. Secondo quanto riferisce la Reuters i negoziati sull’aliquota fiscale minima globale dovrebbero essere completati durante il vertice dei leader del G20 in programma il 30 e 31 ottobre a Roma.

QUALCHE NUMERO PER CAPIRE IL FENOMENO

Far pagare le tasse con un’aliquota unica e nei Paesi in cui si produce reddito aiuta anche a combattere l’annosa battaglia contro i paradisi fiscali che nel 2019 l’allora neo presidente dell’Antitrust, Roberto Rustichelli, aveva attaccato duramente.

Che la questione sia di un certo rilievo risulta evidente mettendo a paragone i dati Eurostat relativi al Pil e al reddito pro capite di Irlanda, Lussemburgo e Olanda con quelli dell’Italia e scorrendo le cifre.

A fronte di una popolazione pari a 600 mila abitanti, il Lussemburgo nel 2020 può vantare un reddito pro-capite di 81.290 euro e un Pil di 64,1 miliardi in crescita dell’11% tra 2015 e 2020 mentre in Irlanda – con 4,9 milioni di persone sul suo territorio – si registra un reddito pro-capite di 61.560 euro e un Pil di 366,5 miliardi (+32% nel quinquennio). Si sale addirittura a 798,7 miliardi di Pil in Olanda (+5% tra 2015 e 2020) a fronte di 17,4 milioni di abitanti e un reddito pro-capite di poco più di 40mila euro.

Il discorso si fa parecchio diverso quando si arriva in Italia: una popolazione di 59,6 milioni di persone che dispone di un reddito pro-capite di 24.890 euro e di un Pil di 1.651,6 miliardi, in calo del 5%.

Ma ci sono altri numeri che rendono altrettanto chiaramente la disparità causata dalle differenze dei trattamenti fiscali. Parliamo delle imposte sul reddito delle società di cui l’Ocse fornisce i dati.

Ebbene, nel 2019 – ultimo riferimento temporale disponibile – in Lussemburgo erano pari al 5,92% del Pil e in Olanda al 3,7%. Più o meno allineata l’Irlanda dove le tasse sul reddito delle società arrivavano al 3,14% del Pil. Guarda caso, ben distante l’Italia in cu due anni fa erano pari solo all’1,94%.

COSA DISSE RUSTICHELLI

A portare alla ribalta con forza il problema, dunque, è stato due anni fa il presidente dell’Antitrust, Rustichelli, a pochi mesi dalla sua elezione alla guida di Piazza Verdi. “Viene, innanzitutto, in rilievo il fenomeno del dumping fiscale realizzato da alcuni Paesi membri, divenuti oramai veri e propri paradisi fiscali – aveva sottolineato -: questo tipo di malsana competizione è frutto di egoismi nazionali e rischia di incrinare i valori che hanno finora sorretto il processo di integrazione europea”.

Rustichelli parlava apertamente di “concorrenza fiscale posta in essere da alcuni Stati quali, ad esempio, l’Olanda, l’Irlanda, il Lussemburgo e il Regno Unito” che viene “utilizzata, come rilevato dalla stessa Commissione europea, dalle imprese multinazionali per porre in essere forme di pianificazione fiscale aggressiva”. Pur non essendo un fenomeno “di facile quantificazione”, qualche dato utile si poteva desumere dal rapporto “Aggressive tax planning indicators” con cui Bruxelles analizza approfonditamente la questione e i suoi effetti.

Proprio da lì il presidente dell’Authority desumeva – per esempio – che “il Lussemburgo, paese di circa 600 mila abitanti, è in grado di raccogliere imposte sulle società pari al 4,5% del PIL, a fronte del 2% dell’Italia. Anche l’Irlanda (2,7%) fa meglio dell’Italia, nonostante un’aliquota particolarmente bassa, che è, però, in grado di attrarre imprese altamente profittevoli con un margine operativo lordo mediamente pari al 69,4% del valore aggiunto prodotto”. A fronte di pochi Paesi che ci guadagnano, però, “è l’Unione europea a perderci, visto che i gruppi multinazionali reagiscono alla concorrenza fiscale localizzando le loro imprese più profittevoli proprio nei Paesi europei con una tassazione più favorevole. Ciò non solo drena risorse dalle economie in cui il valore è effettivamente prodotto, ma riduce nel complesso la capacità della collettività di raccogliere risorse, in tal modo impedendo una più equa tassazione dei profitti delle imprese”. In Italia un esempio del problema si ha con il “rilevante danno economico per le entrate dello Stato causato dal recente trasferimento della sede fiscale a Londra di quella che era la principale azienda automobilistica italiana (Fca, ndr), nonché dal trasferimento della sede legale e fiscale in Olanda della società sua controllante”.

In poche parole, questi i conti presentati da Rustichelli a luglio 2019, “la concorrenza fiscale genera esternalità negative che costano a livello globale 500 miliardi di dollari l’anno, con un danno per l’Italia stimato tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari l’anno”.

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