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Europa Donne

L’Europa delle donne

Il Bloc Notes di Michele Magno

È una Europa felix quella in cui tante donne hanno elevate responsabilità istituzionali o governano in prima persona. Tuttavia, non si tratta di una novità assoluta nella storia del Vecchio continente. Infatti, anche il Cinquecento vide un fenomeno analogo. Per fare qualche nome, Maria Tudor e poi sua sorella Elisabetta salgono sul trono d’Inghilterra. Maria Stuarda cinge la corona di Scozia. Margherita d’Austria guida i Paesi Bassi in rivolta contro la dominazione spagnola. Jeanne d’Albret, regina di Navarra, è una fiera paladina della causa protestante. Caterina de’ Medici regge la monarchia francese durante ben otto guerre di religione.

Allora a questo “Rinascimento al femminile” non corrispose un miglioramento giuridico della condizione delle donne. Dimostrò che alcune nobili signore avevano saputo far valere il proprio lignaggio, la propria intelligenza e, talvolta, la propria bellezza, a dispetto della cultura misogina dell’epoca. Ma, per quanto spettacolari, i loro successi non scalfirono il monopolio maschile del potere. Cinque secoli dopo, nonostante gli straordinari progressi realizzati nel campo dei diritti di genere, il cammino resta ancora lungo -soprattutto in Italia- prima che l’altra metà del cielo occupi il posto che le spetta nella società e nella politica. Per molte note ragioni, e malgrado le benemerite quote rosa.

Timothy Leary, che prima di diventare negli anni Sessanta il profeta della “rivoluzione psichedelica” in America era uno stimato professore di psicologia a Harvard, diceva che le donne che cercano la parità con gli uomini mancano di ambizione. È una battuta irriverente e provocatoria, che può divertire o indignare. Mette comunque in discussione la verità apparente di un luogo comune. È quindi un invito a osare di più, ad avere più coraggio, ad alzare l’asticella delle proprie aspirazioni. Se non ora, quando? [Il Foglio]

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La storia è piena di traditori, per avidità o per amor di patria, per ambizione o per vendetta, per fanatismo o per viltà, per mille ragioni e per mille passioni. Ma chi è il traditore? Che sia chi infrange un giuramento, o incrina il patto che unisce una comunità, pare abbastanza ovvio. Per non parlare degli adulteri nella sfera privata, l’attributo di traditore è stato dato a rivoluzionari e voltagabbana, apostati ed eretici, convertiti e rinnegati, ammutinati e disertori, spie e collaborazionisti, ribelli e terroristi, pentiti e crumiri. Eppure, se osserviamo la percezione del tradimento che nelle diverse epoche ne hanno avuto contemporanei e posteri, essa si basa su due postulati. Il primo: chi vince non è mai un un traditore. Il secondo: ciò che oggi viene considerato un tradimento, come ben sapeva Talleyrand, domani potrebbe essere considerato un atto coraggioso (“La trahison c’est une question de dates”).

Ho pensato allora al “caso Di Maio“. Fedifrago per i grillini duri e puri (la senatrice Paola Taverna non ha proprio usato questo termine, ma ci siamo capiti), esemplare di razza del nostro blasonato trasformismo italico, come lo ha definito Giuliano Ferrara sul Foglio in un arguto e spassoso ritratto. Del resto, siamo il paese che ha dato i natali a Leopoldo Fregoli, un impareggiabile artista capace di cambiare casacca e personalità con fulminea destrezza. Ora, chi scrive non sa dire (in verità ne dubita) se il ministro degli Esteri vincerà la sua scommessa politica, né se la sua separazione dall’avvocato del popolo (e di clienti abbienti) in futuro sarà giudicata come una scelta intrepida. Chi scrive, tuttavia, gli riconosce il merito di aver prosciugato definitivamente il “campo largo” del centrosinistra, un’idea che faceva acqua da tutte le parti fin dal suo concepimento. La fondazione di Roma narrata da Tito Livio è strettamente legata -oltre che al fratricidio commesso da Romolo- al tradimento di Tarpea, la figlia del guardiano del Campidoglio. Chissà, non è poi da escludere che il “tradimento” di Di Maio contribuisca a ricostruire un sistema di regole in cui ciascun partito si presenta con il suo simbolo e il suo programma, prende i voti su quelli e prende seggi in proporzione ai voti, magari con un’opportuna soglia di sbarramento. [Il Foglio]

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“Pacifismo non è soltanto invocare la pace, pregare per la pace, dare testimonianza  di volere la pace […]. Questo è il pacifismo etico-religioso, che si ispira consapevolmente all’etica delle buone intenzioni. Opporre la nonviolenza assoluta in ogni forma, anche la più piccola, di violenza. Offrire l’altra guancia. Meglio morire come Abele che vivere come Caino. Non è più possibile distinguere guerre giuste da guerre ingiuste. Tutte le guerre sono ingiuste. [Ma] non è forse vero che l’impotenza dell’uomo mite finisce per favorire il prepotente? In una situazione in cui, per osservare il principio della nonviolenza tutti gli stati fossero disposti a gettare le armi, l’unico che si rifiutasse di farlo diventerebbe il padrone del mondo” (Norberto Bobbio, “Il problema della guerra e le vie della pace”, il Mulino, Prefazione alla quarta edizione, 1997). [Il Foglio]

 

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