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Crimini di guerra: un mandato di arresto internazionale per Putin?

L'approfondimento di Francesco Provinciali

 

Cuno Tarfusser, già a capo della Procura di Bolzano e per 10 anni — dal 2009 al 2019 — giudice della Corte Penale internazionale dell’Aia fino a diventarne vice presidente, un magistrato tutto d’un pezzo e con le idee chiare, in un’intervista al Corriere della Sera ha preso in considerazione l’ipotesi di un mandato di arresto internazionale per Vladimir Putin, per i crimini di guerra commessi contro la popolazione civile.

“Potrebbe arrivare entro la fine dell’anno. In questa guerra non bisogna andare lontano per individuare i responsabili e raccogliere le prove”. Secondo il giudice – già impegnato nella vicenda del Darfur – è importante sommare le evidenze delle vicende più eclatanti della “missione militare russa in Ucraina” (per usare una definizione dell’Ambasciatore russo in Italia Sergey Razov) come ad esempio “l’attacco all’ospedale e al teatro di Mariupol, le fosse comuni e i civili uccisi nelle strade di Bucha. Basterebbero per un’incriminazione”. “In Ucraina si commettono crimini di guerra ogni giorno — sottolinea nell’intervista — Il punto è raccogliere prove ‘genuine’, cosa non facile in una situazione di conflitto aperto. È quanto sta cercando di fare la squadra del procuratore generale della Cpi Karim Khan”.

Si aggiunga una notizia di ieri, che andrà verificata a breve: i crematori mobili russi a Mariupol bruciano i corpi dei residenti della città, assassinati, allo scopo di distruggere ogni prova dei crimini commessi. (Fonte: Consiglio comunale di Mariupol).

Senza entrare nel merito politico della vicenda, il giudice si sofferma sull’ipotesi di accertamento di reati penali. Questione non secondaria nel conflitto in atto per la crudeltà e l’efferatezza del massacro di vittime civili e avvio della procedura del magistrato che valuta un’ipotesi di reato: nel diritto internazionale vige infatti il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, raccolta la “notitia criminis”.

Sul piano dei principi giuridici e della via giudiziaria che ne consegue la puntualizzazione è ineccepibile: “Se Putin fosse raggiunto da un mandato di cattura, la sua capacità di muoversi sulla scena internazionale diminuirebbe fortemente. Se andasse in uno dei 123 Paesi che hanno ratificato lo Statuto di Roma rischierebbe l’arresto. Per lui anche solo questa possibilità rappresenterebbe un danno”.

Questo è tuttavia solo un aspetto della vicenda bellica in atto che se da un lato ipotizza una sanzione per violazione di principi etici e giuridici condivisi dalla comunità internazionale, dall’altro palesa il valore simbolico del procedimento e di una possibile e consequenziale condanna per un reato penale, previo accertamento in sede giudiziaria delle correlate responsabilità. Tuttavia sul piano della concreta agibilità di questa ipotesi si evidenziano alcune difficoltà oggettive. Nessuno può immaginare che Putin si allontanerebbe dal territorio della Russia per correre questo rischio, d’altra parte se l’obiettivo principale invocato da quella parte del mondo che chiede il cessate il fuoco e trattative concrete susseguenti — cioè a dire la pace — dovesse imboccare la strada della fine delle ostilità, il ritiro dell’esercito invasore e la ricostruzione di un’Ucraina indipendente (con tutte la variabili delle autoproclamate repubbliche filorusse di Donetsk e Lugansk, nel Donbass oggetto dell’inevitabile negoziato), ciò non potrebbe aver luogo se al tavolo delle decisioni non sedesse Putin stesso: egli è l’attore principale di quanto sta accadendo e la ratifica di un possibile accordo che eviti conseguenze disastrose per il mondo e per l’Europa in particolare, non potrebbe prescindere dalla sottoscrizione dell’autarca di Mosca.

Una ‘Norimberga’ applicata alla guerra in atto e ai crimini militari commessi, come invocata da Zelensky, non è ipotesi praticabile al momento, pur a fronte dell’atrocità del massacro delle vittime civili, delle donne stuprate e uccise, dei minori assassinati. Non ci sono film, attori e comparse: incredibile solo pensare che qualcuno sostenga — anche tra noi — questa tesi. Anche se le evidenze di quanto sta accadendo non ammettono revisionismi, negazionismi e formule dubitative francamente inaccettabili occorre perseguire in primis la via della pace. Ma se al Tribunale dell’Aia siedono giudici autorevoli e — come recita un adagio ricorrente nelle aule giudiziarie — ‘la giustizia è lenta ma inesorabile’ , ciò un giorno dovrà accadere ma in questa fase di guerra ancora aperta su più fronti, sanguinosa e devastante, un vero orrore agli occhi del mondo, le posizioni di Russia e Ucraina paiono ancora nettamente distanti tra loro.

Una resta vittima e l’altra carnefice.

Per questo — oltre le sanzioni, oltre il giudizio morale, oltre le evidenze documentate — occorrerebbe un giudice istituzionale terzo, capace di far sedere a un capo e all’altro del tavolo i due protagonisti principali, unici attori di un possibile accordo che ponga fine a questa intollerabile atrocità. L’Onu potrebbe svolgere questo incarico (se il regolamento prevede l’inazione per il veto di uno Stato membro vuol dire che si deve cambiare regolamento: ma l’organizzazione mondiale delle Nazioni Unite non può recitare un ruolo meramente marginale e di fatto ininfluente), la diplomazia internazionale dovrebbe unirsi e sotto gli occhi di tutto il mondo i Capi di Stato chiedere di essere ricevuti al Cremlino, ma non come Enrico IV a Canossa.

Lo stesso Papa Francesco dovrebbe sfidare la storia, nonostante il diverso punto di vista del Patriarca Kirill, e compiere un passo clamoroso e denso di incognite ma utile a spezzare una guerra che rischia di protrarsi ad oltranza: andare a Mosca più che a Kiev.

Come Leone I che fermò gli Unni di Attila che imperversavano per l’Europa.

Per quanto ci riguarda, nel frattempo, sarebbe utile che quegli opinionisti privi di qualsivoglia competenza che si altercano tra loro esprimendo con disinvoltura congetture fantasiose secondo pregiudiziali ideologiche (peraltro mutevoli), utili soprattutto per presentare un libro, avessero il pudore di tacere per non buttare “cherosene sul fuoco”, per usare un’espressione dell’ambasciatore Razov.

Francesco Provinciali

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