Nel recente Summit europeo, si sono discussi a lungo i problemi della sicurezza e della difesa. In esso, il termine “bussola strategica” è stato utilizzato per definire quale “autonomia strategica” si debba e si possa proporre l’Ue. Un chiarimento, al riguardo, è indispensabile anche per ridisegnare i rapporti con la Nato, modificati dall’elezione di Joe Biden e dai cambiamenti avvenuti nella geopolitica del mondo e in quella dell’Europa e delle sue periferie sia orientali che meridionali. Sono state, almeno implicitamente, escluse sia la possibilità di un’Ue globale, impegnata a fianco degli Usa anche nell’Indo-Pacifico – in cui si è spostato il loro pivot strategico – sia quella dell’indipendenza strategica dell’Ue, fantasiosamente auspicata dai gollisti francesi.
Il dibattito nel Summit è stato stimolato non tanto dalle ambizioni dell’Ue di “pesare” nella definizione del nuovo ordine mondiale, quanto di fronteggiare lo strisciante disimpegno Usa dal Medio Oriente e dall’Africa settentrionale, per ovviare alla progressiva marginalizzazione dell’Europa e, più contingentemente, per approfittare delle “aperture” di Biden, “vecchio guerriero della guerra fredda”, verso l’Europa. Esse potrebbero ridursi a solo qualche chiacchiera sull’America is back, qualora l’Ue non abbia nulla da offrire agli Usa. È difficile per Biden fare concessioni all’Europa, dati i problemi interni che deve affrontare e il fatto che gran parte della sua opinione pubblica è persuasa che gli europei approfittino della protezione degli Usa per fare affari con la Cina e con la Russia.
Tutti sono d’accordo che la difesa dell’Ue – o, meglio, quella dei suoi Stati membri, dato che l’Unione non dispone di un esercito comune e tanto meno di armi nucleari – dopo il fallimento del progetto della “bomba” italo-franco-tedesca provocato sia da de Gaulle che dagli Usa – debba essere cooperativo, non competitivo con la Nato. Tuttavia, nessuno è mai riuscito a definire esattamente come possa esserlo e, tanto meno, se debba essere utile soprattutto agli Usa per indurli a rinsaldare i legami transatlantici, oppure se tendere a ridurre la dipendenza europea dalla protezione americana, che nella Regione Centrale dell’Alleanza si è spostata con Trump ad Est, sull’Intermarium ponto-baltico.
Beninteso, il Summit non ha risolto tale problema di fondo. Una scelta sarà forse compiuta nel Summit delle Democrazie o G10 (G7 più India, Australia e Corea del Sud), che Biden organizzerà nei prossimi mesi in funzione anti-cinese e forse anche anti-russa. A parte i diritti umani, esso sarà incentrato sull’economia e sulla tecnologia. Per la prima, verrà concordata una diminuzione della dipendenza dalle supply chains e dalle materie prime strategiche (specie terre rare) cinesi. Per la seconda, verrà previsto un sistema di embarghi delle tecnologie strategiche, simile a quello previsto dal CoCom nella guerra fredda. Forse, si parlerà anche del sostegno della Marine occidentali a quelle del Quad (Usa, India, Giappone e Australia) nell’Oceano Indiano e nel Mare Cinese Meridionale (che sempre più India e Usa chiamano Oceano Indiano Orientale).
Pur nell’incertezza sul futuro, tre cose sono risultate certe nel Summit. Primo, i mutamenti intervenuti impediscono un semplice “ritorno” al passato. Secondo, l’Ue deve utilizzare l’America is Back di Biden per ricostituire una certa unità dell’Occidente. Terzo, mentre le “intemperanze” di Trump compattavano l’Ue, le “buone maniere” di Biden rischiano di frammentarla, non solo per quanto riguarda i rapporti con la Russia e con la Cina, ma anche per il citato controllo delle tecnologie critiche e per le “crociate” sui diritti umani e relative sanzioni economiche (incluse quelle secondarie extraterritoriali) a cui ricorreranno gli Usa. Dire di no a Biden sarà per gli europei molto più difficile di quanto fosse dire di no a Trump.
Nel Summit Mario Draghi, ha confermato di possedere una visione ben chiara degli interessi geopolitici dell’Italia. Essa era alquanto pasticciata e nebulosa (è un eufemismo!) nel precedente governo, portato a subordinare la politica estera a quella interna e ai suoi show comunicativi. Ciò aveva determinato sospetti e contribuito a emarginare il nostro Paese in Europa e nel Mediterraneo. In particolare, ci aveva penalizzato in Libia e nel Bacino Levantino, lasciando la porta aperta all’influenza della Turchia e della Russia. Draghi ha affrontato l’argomento “autonomia strategica” in termini realistici. Ha dimostrato di essere consapevole della complessità del problema e dei limiti politici e militari dell’Ue e del fatto che qualsiasi alleanza o coalizione presupponga precise missioni e ben delimitati teatri operativi. Non viceversa. Poi, che debba tener conto delle capacità non solo materiali, ma anche politiche. Ha perciò insistito per estendere il contenuto dell’“autonomia strategica” agli aspetti non militari della sicurezza. Per essi l’Ue — che non dispone né di un esercito integrato (il suo costo è stato valutato dall’IISS tra i 290 e i 360 mld di euro, da aumentare di oltre il 20% per la Brexit, rispetto ai 7,9 mld destinati all’EDF nell’attuale bilancio settennale). Ha parlato di aiuti allo sviluppo, di contrasto alla criminalità e all’immigrazione clandestina, di vicinato, di clima, di pandemia, di sicurezza cibernetica e di guerra ibrida, termine di certo usato come sinonimo di peacekeeping rinforzato (come sarebbe quello eventuale in Libia o nel Sahel, dove operano anche i contractors delle compagnie militari private, come la Wagner russa e la Blackwater statunitense). Si tratta di una proposta realistica, tenuto anche conto che l’accordo esistente, quello della European Intervention Initiative, è depotenziato dalla mancanza di volontà politica dei vari Stati di partecipare a consistenti operazioni nelle periferie d’Europa. Probabilmente Draghi, parlando di preparazione alla guerra ibrida, si è riferito anche ai Paesi Baltici, in cui vivono consistenti minoranze russe, la cui insurrezione potrebbe essere sostenuta dai “piccoli uomini verdi”, come avvenuto in Crimea.
Per ora, Ue e Usa sono andate ciascuna per la propria strada. La competizione economica ha dominato la cooperazione strategica. Ne sono prova la prosecuzione del Nord Stream 2, l’accordo sugli investimenti fra l’Ue e la Cina e, ultimamente, la visita a Mosca dell’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue, Josep Borrell, proprio quando Biden condannava duramente l’attentato a Navalny e dichiarava illegale l’annessione della Crimea da parte della Russia. Dal canto loro, gli europei sono stati sorpresi dal Buy American di Biden, che riprende le sanzioni decretate da Trump sulle loro esportazioni negli Usa, e dalla nomina di Victoria Nuland – quella del “Fuck the EU” – a numero due del Dipartimento di Stato.
Gli europei sono poi divisi al loro interno. La Brexit ha reso più difficile sia la cooperazione fra gli Usa e l’Ue sia la partecipazione italiana a un direttorio europeo con la Francia e la Germania. L’aspirazione di Parigi alla semi-indipendenza strategica dell’Ue è contrastata da Berlino e anche dall’Italia, che però necessita della Francia in Africa e in Mediterraneo e che continua a sperare in un impegno americano per “toglierle le castagne dal fuoco” in Libia e nel Mediterraneo Orientale.