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Vi spiego come sarà la politica estera di Biden sulla Cina

Molti sperano di poter trarre vantaggi dalla "senile ingenuità” del neopresidente. Pensano che privilegerà il soft power, i grandi discorsi e le profetiche visioni sul futuro del mondo, cioè le chiacchiere, come Obama. Tali speranze saranno deluse da Biden. Ecco perché secondo il generale Carlo Jean

La vittoria di Joe Biden è stata accolta con notevole sollievo da larga parte delle opinioni pubbliche europee, soprattutto per la cacciata dalla Casa Bianca di Donald Trump. Con le sue intemperanze, imprevedibilità ed arroganza egli si era reso inviso anche ai tradizionali alleati degli USA. Minore, o nessun, entusiasmo è stato manifestato dai paesi favoriti da Trump, come il Brasile, Israele e l’Arabia Saudita. Estremamente riservate sono state anche la Russia e la Cina. Putin e Xi Jinping si sono congratulati con ritardo per la sua vittoria.

Difficile è prevedere nel dettaglio la politica estera di Biden. Sarà comunque segnata da una continuità con il passato. La geopolitica non muta con le preferenze di un presidente. Una previsione più affidabile potrà essere fatta solo quando si conoscerà la composizione dell’équipe presidenziale. Sembra comunque che molti dei principali collaboratori del nuovo presidente verranno scelti fra quelli di Barack Obama. Per i più entusiasti della sconfitta di Trump, il nuovo presidente promuoverà una nuova era dei rapporti internazionali o, addirittura, il ritorno ai “bei tempi antichi” di un ordine internazionale basato sulla cooperazione e su regole rispettate da tutti, in cui gli USA tornerebbero ad essere i “gendarmi” la “locomotiva economica” del mondo. Lo ritengo impossibile. I rapporti di forza globali sono profondamente mutati. Il baricentro della potenza si è spostato dall’Atlantico all’Indo-Pacifico. Il “momento unipolare” che era stato caratterizzato dall’egemonia americana accettata da tutti è terminato per sempre.

Non è fallita solo la globalizzazione liberale, ma anche il tentativo di Trump di ripristinare con le minacce e l’uso dell’arma economica e finanziaria la centralità americana. E’ scomparsa anche l’illusione, propagandata soprattutto da Robert Zoellick all’inizio del secolo, circa la possibilità di un accordo globale e permanente fra gli USA e la Cina (“Chimerica” – China and America), chiamato anche G-2, per regolare il nuovo ordine mondiale. E’ invece scoppiata una seconda “guerra fredda” fra gli USA e la Cina. La sfida principale che deve affrontare Biden consiste nel definire la strategia degli USA per vincerla. Oggi essa manca a Washington. Esiste invece a Pechino.

La strategia di Trump di contrasto diretto e unilaterale della Cina, pur ottenendo taluni successi tattici, ha dimostrato i suoi limiti. Washington non può fronteggiare da sola Pechino, data l’integrazione dell’economia mondiale e il supporto che l’economia e la tecnologia cinese ricevono dal Partito. Quest’ultimo ha capito da tempo che la tecnologia (e il controllo di materie prime chiave, (come le “terre rare”) costituisce lo strumento essenziale di potere e d’influenza. Pechino ne sostiene lo sviluppo sia finanziariamente che con lo spionaggio.  Taluni “scatti adrenalinici” di Trump hanno provocato consistenti perdite economiche agli alleati degli USA, rendendoli meno disponibili ad accettare le loro imposizioni sul controllo delle tecnologie critiche, cruciale nella nuova competizione mondiale. La componente militare della seconda guerra fredda non rappresenta invece un elemento centrale, come lo era stato nella prima. Le minacce di Trump si sono rivelate armi spuntate. Non sono state in grado, se non marginalmente, d’imporre la volontà di Washington ai suoi alleati. Sono state un po’ come le “linee rosse” di Obama, che venivano violate senza che capitasse nulla, con grave danno al prestigio americano.

Nel conflitto ideologico o del soft power fra il Washington Consensus e il Beijing Consensus, il secondo si è rafforzato a seguito degli aiuti cinesi per contrastare la pandemia del “coronavirus”, originata nella stessa Cina. Esso si sarebbe poi ancora consolidato con l’RCEP (Regional Comprehensive Economic Partnership), a cui non partecipano gli USA. Questi ultimi si sono ritirati dal TPP (TransPacific Partnership), che avevano promosso con Obama. Esso escludeva invece la Cina e mirava ad attenuare la crescente dipendenza economica da Pechino dei paesi sia asiatici sia sudamericani del Pacifico. Il RCEP riunisce 15 paesi asiatici (non ne fa però parte l’India) e rappresenta il più grande accordo commerciale esistente al mondo. Coinvolge un terzo sia della popolazione che del PIL mondiale, quest’ultimo destinato a crescere al 50% nei prossimi vent’anni. Taluni dubitano che rafforzi realmente Pechino. Infatti, si limita ad assorbire decine di accordi bilaterali e trilaterali già in essere. I paesi che ne trarrebbero maggior vantaggio sono il Giappone e la Corea del Sud, non la Cina. Comunque, ha ristretto le possibilità d’influenza economica e, quindi, strategica degli USA, a cui non resta che rafforzare i legami con l’India e quelli strategici con il Giappone, la Corea del Sud e l’Australia.

Nella sua strategia di contenimento politico, economico e strategico della Cina, Biden non deve però bloccare la possibilità di collaborazione con Pechino nei settori d’interesse comune, come i cambiamenti climatici, le pandemie, la fame nel mondo e le misure di controllo degli armamenti, volte ad evitare lo scoppio di una guerra per errore o per escalation incontrollata a Taiwan o nei Mari Cinesi Meridionale e Orientale. Per essere realistica, tale strategia – di cui gli embarghi tecnologici costituiranno una componente essenziale – dovrà coinvolgere gli alleati degli USA. Si tratta di un obiettivo alquanto difficile da raggiungere, dato che non esiste una politica economica e tecnologica europea comune nei confronti della Cina. Le difficoltà sono aumentate con la crisi economica provocata dal Covid-19. Essa ha fatto sì che la Cina abbia superato gli USA nel secondo trimestre del 2020 come primo importatore di prodotti tedeschi.

Biden è consapevole di tali difficoltà. Lo dimostra il suo annuncio di voler organizzare entro 100 giorni dall’Inauguration un Global Summit for Democracy. Vi parteciperebbero i membri del G-7, l’India, la Corea del Sud e l’Australia. Non si conoscono gli obiettivi dettagliati di tale tentativo di creare una “Lega delle democrazie”, a parte quello dichiarato di voler frenare la regressione democratica avvenuta nel mondo che, impropriamente, viene addebitata al solo Trump. Taluni hanno cercato di definirli con una formula simile a quella usata nella guerra fredda “USSR out, Germany down and US in”: “bloccare la Cina; tenere stretta l’India; e rafforzare la leadership americana nel mondo”.

Molti sperano di poter trarre vantaggi da quella che ritengono essere la senile “ingenuità” del neopresidente. Pensano che privilegerà il soft power, i grandi discorsi e le profetiche visioni sul futuro del mondo, cioè le chiacchiere, come Barack Obama, di cui è stato vice nei suoi due mandati presidenziali. Sono certi di poter continuare a fare i loro interessi, dando per scontato il supporto economico e strategico americano. A parer mio, tali speranze saranno deluse dal nuovo presidente americano. Non bisogna lasciarsi ingannare dai suoi sorrisi e dalle sue buone parole. Nel passato si è rivelato un duro negoziatore. Possiede una grande esperienza di politica estera. Appartiene alla generazione che ha vinto la guerra fredda. Deve poi tener conto della realtà politica americana, in cui la polarizzazione sulle ali estremi riguarda anche il Partito Democratico in cui il consenso bipartisan è sempre più difficile. Sa che l’opinione pubblica americana è fortemente anti-cinese e che non è più disponibile a impegnarsi nel mondo quando non siano in gioco suoi diretti interessi. La competizione geopolitica ed economica con la Cina verosimilmente si inasprirà. Anche quella con la Russia, in particolare per il controllo delle armi nucleari, diventerà più dura. Gli europei, che di fronte alle pressioni di Trump erano portati a fare fronte comune, avranno maggiori difficoltà nel resistere alle richieste i Biden, sia nel campo del contributo alla sicurezza comune, sia nei rapporti economici e tecnologici con la Russia e con la Cina.

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