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Antispecisti

L’antagonismo militante degli antispecisti più radicali

L'approfondimento di Giuseppe Gagliano sugli antispecisti di seconda generazione

 

Fra le varie scuole di pensiero presenti all’interno della galassia del movimento antispecista vi è certamente l’antispecismo di seconda generazione — lontanissimo dall’approccio protezionista — che sottolinea la centralità della lotta anticapitalistica, lotta che diventa dunque anche il punto di incontro del collante con le altre lotte sociali umane.

I sostenitori di questa approccio interpretativo affermano che l’antropocentrismo è l’ideologia giustificazionista che sta alla base dello sfruttamento animale e l’antropocentrismo serve a legittimare e a giustificare il sistema capitalistico dominante (tesi questa molto diffusa nel contesto dell’ecologia profonda così come all’interno dei movimenti ambientalisti radicali come Earth First!).

In Italia, per esempio, in particolare nell’area lombarda, i gruppi certamente più radicali sono quelle che si riuniscono intorno a oltre la specie e a cani sciolti, essere animali, farro e fuoco.

Ebbene una delle conseguenze della concezione anti-antropocentrica è quella relativa ai cani i quali non possono essere più soggetti a forme di utilizzo da parte di uomini e donne divenendo ora compagni di caccia, ora giullari da compagnia del re, ora sudditi. I cani cioè non possono essere più addestrati per sfilare, per la caccia, per la guerra o la difesa pubblica e personale perché in questo modo i cani finiscono per assumere un ruolo di partnership subalterna. Ecco allora che l’orizzonte della filosofia antispecista e vegana si presenta un nuovo soggetto antagonista: il cane ribelle, il cane anarchico.

In questa ottica guarda caso riacquista legittimità la prospettiva marxista che pone l’enfasi sul processo di mercificazione degli animali: lo sfruttamento animale infatti viene legato a doppio filo allo sviluppo capitalistico. Anche se alcune scuole di pensiero antispecista si rifanno all’approccio metodologico mutuato dal filosofo francese Michele Foucault l’epilogo con l’approccio metodologico tradizionale — come quello eco marxista di Gorz — è analogo a quello marxista. Di estremo interesse sono le riflessioni di Ted Benton, Barbara Noske e David Nibert secondo i quali lo specismo è una ideologia creata e diffusa per legittimare l’uccisione e lo sfruttamento degli altri animali.

In questo contesto non deve sorprendere la presa di posizione di una vecchia conoscenza dell’anticapitalismo come Angela Davis che ha sottolineato come il cibo che mangiamo nasconde sicuramente molta crudeltà poiché il fatto che siamo in grado di sederci e mangiare un petto di pollo, senza pensare alle condizioni orrende in cui polli sono allevati industrialmente in questo paese (cioè negli Stati Uniti), è un chiaro indicatore dei pericoli del capitalismo e cioè di come capitalismo sia stato in grado di colonizzare le nostre menti.

Una delle pratiche militanti legali e non violente attuate dagli antispecisti è la costruzione di rifugi per gli animali chiamati anche Farm Sanctuary nati nel 1986, anno nel quale trovò rifugio una pecora di nome Hilda che fu trovata ancora viva sotto una pila di cadaveri nel retro di un mattatoio. Lo scopo di questi rifugi è quello di fornire un luogo nel quale gli animali possono vivere serenamente perché sono scampati all’industria della carne, di garantire una vita degna, di evitare qualsiasi forma di utilizzo sfruttamento e soprattutto di evitare l’acquisto di animali e la loro riproduzione. Affinché questi rifugi siano un reale luogo di antagonismo politico e sociale è necessario che questi divengano una sorta di modello per un diverso sistema sociale nel quale manchi ogni forma di dominio, di sfruttamento e di prevaricazione. In altri termini questi rifugi per gli animali non sarebbero altro che le storiche comunità autogestite di derivazione anarchica e socialista.

Tra le forme di antagonismo militante da parte dei gruppi antispecisti vi sono attualmente le fortissime contestazioni — ora legali e non violente, ora illegali e non violente ora invece azioni violente — nei confronti degli allevamenti intensivi e nei confronti dei laboratori di vivisezione, contestazioni che spesso si concretizzano in forme di violenza, boicottaggio, disubbidienza civile, investigazioni coperte, violazione di proprietà privata ecc che vengono naturalmente giustificate sottolineando come la vera violenza sia quella delle istituzioni mentre quella esercitata dai movimenti antispecisti sia uno strumento solo di lotta e di liberazione.

Mi preme alla fine di questa brevissima e necessariamente incompleta rassegna fare una breve considerazione di natura storica: alla fine degli anni 70 molti militanti di estrema sinistra trovarono modo di legittimare le loro posizioni non solo all’interno delle istituzioni accademiche ma anche all’interno dei giornali, della televisione e della radio.

Allo stesso modo non si può fare a meno di constatare come una parte significativa degli antagonisti antispecisti — e di coloro che li legittimano — sia pienamente inserita nel mondo universitario (pensiamo a Peter Singer antispecista di prima generazione e docente a Princeton, a Charles Patterson della Columbia University, a Steven Best della Università del Texas o a Andrew Linzey direttore del Oxford Centre for Animal Etichs) e come quindi la loro riflessione abbia acquisito credibilità e autorevolezza nazionale e internazionale.

Ora, un’ulteriore forma di legittimazione accademica è quella offerta dalla sociologia e, in particolare, da quella dei movimenti sociali, che si affianca sul piano ideologico alla sociologia di ispirazione marxista — Marcuse, Wright Mills, Scuola di Francoforte — che proprio negli anni settanta ebbe modo di affermarsi.

Infatti sotto il profilo strettamente accademico è sorta anche in Italia una disciplina alla quale ha contribuito in modo determinante lo studioso Alberto Melucci e cioè la sociologia dei movimenti sociali che in breve tempo è diventata uno strumento sia per spiegare le strutture organizzative dei movimenti sociali degli anni 70 e di quelli attuali — dai no global, alle femministe, agli ambientalisti, agli animalisti — ma anche per legittimarne il linea di massima gli obiettivi politici e sociali.

A tale proposito una delle maggiori studiose italiane, la cui rilevanza nel campo della sociologia dei movimenti sociali è di natura internazionale, è certamente Donatella Della Porta che ha posto in essere una metodologia sociologica mutuata anche da Sydney Tarrow con lo scopo sia di spiegare il modus operandi dei movimenti sociali — quello no global, i no Tav, i no Triv ecc — sia soprattutto di darne una giustificazione politico-culturale.

Di analogo interesse sono le ricerche di Mario Diani.

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