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Tavares

Perché trattori e Stellantis asfaltano i cantori del libero mercato

Stellantis che chiede al governo italiano sovvenzioni per non chiudere le ex fabbriche Fiat è la manifestazione di un sistema non più capitalista ma di tipo neo-feudale, in cui l'economia è subordinata ai rapporti di forza politici. L'analisi di Giorgio Meletti per la newsletter Appunti di Stefano Feltri

Ma insomma, che cosa chiedono questi sui trattori?

Mettiamo in fila i fatti.

Non stiamo parlando di una plebe sfruttata ma di imprenditori che protestano seduti su un trattore da almeno 50 mila euro e possiedono un’azienda da almeno un milione di euro.

Questo non sottintende il classico “sono ricchi, si fottano” che pure è molto in voga. Significa al contrario che, quando le imprese scendono in piazza con stilemi proletari o, come Stellantis, ricattano lo Stato pretendendo inventivi per non chiudere, vediamo il mondo al contrario, ovvero un capitalismo che non funziona più come prima.

C’è un’ulteriore specificazione da fare. Coltivare la terra e allevare (suini o bovini o pollame) sono due mestieri diversi per una ragione strutturale evidente: si può smettere di allevare e importare carne, prosciutti e uova, però non si può smettere di coltivare la terra. E qui veniamo al punto.

Fuori mercato

Gli agricoltori sono in difficoltà, ma non per gli obblighi europei, le tasse o il costo del gasolio agricolo, che sono i dettagli su cui amiamo accapigliarci per non parlare della realtà. Semplicemente gli agricoltori italiani per primi, quelli europei subito dietro, stanno andando fuori mercato.

La teoria del mercato (che sempre più si disvela come valida in una concreta fase storica passata mentre oggi tende a residuare come mera superstizione priva di riscontri nella realtà) la fa semplice: se sei fuori mercato devi morire, cioè chiudere. Questo un tempo aveva senso “quasi” sempre. Oggi un po’ meno.

Ormai le aziende industriali non falliscono, ma è la multinazionale che chiude la fabbrica italiana per trasferire le stessa produzione in un posto più competitivo.

Comunque teniamo per valida l’idea che se l’Italia non è competitiva nell’industria dell’auto è giusto che importi le vetture, e che se non è competitiva nell’acciaio è giusto che importi i rotoli di lamiera.

Ma nel momento in cui il mercato italiano viene invaso dalle arance cilene a prezzo imbattibile si verifica un fatto che la teologia mercatista non aveva previsto: il fallimento e la chiusura dell’agricoltura.

Secondo gli irriducibili adoratori del mercato lo scenario futuro dovrebbe prevedere che, insieme a fabbriche e capannoni abbandonati nelle periferie urbane, tornino a diffondersi le paludi in un paesaggio rurale di campi abbandonati, frutteti secchi, uliveti trasformati in giungla. Ma questo non accadrà: dietro la protesta dei trattori c’è semplicemente l’incertezza su come non farlo accadere, ma di sicuro non accadrà.

La storia infatti ci insegna che, quando le ragioni del mercato si scontrano con le ragioni della società, le seconde prevalgono, magari con grave ritardo, ma prevalgono.

C’è dunque una realtà che i mercatisti superstiziosi rifiutano: non tutto può sottostare alle regole del mercato e fin dal primo giorno il sistema capitalista ha fatto compromessi con la realtà.

I primi sistemi di protezione sociale dei poveri sono di oltre due secoli fa, e la libertà d’impresa, sempre proclamata dai suoi sacerdoti assoluta e priva di condizionamenti, è stata limitata sempre, per esempio dalle leggi sull’orario di lavoro o dalle pensioni a carico del datore di lavoro. E comunque sappiamo che l’agricoltura europea è sovvenzionata pesantemente da 60 anni.

Rapporti di forza

Questo equilibrio – libera concorrenza in un quadro di limiti e regole – è saltato per due ragioni.

Prima ragione: non è vero che il libero mercato (nella sua infinita saggezza, meglio nota come “mano invisibile” di Adam Smith che però secondo Joseph Stiglitz è invisibile perché non c’è…) risolve tutti i problemi del mondo.

Per esempio non sa affrontare la questione del cambiamento climatico ed è perciò che la politica europea ordina all’industria dell’auto lo stop al motore a scoppio entro il 2035. Chiedetevi se l’autorità politica che decide il tipo di motore da montare sulle auto somigli di più al libero mercato o all’Unione Sovietica.

Poi chiedetevi perché l’industria dell’auto subisce in silenzio. E adesso datevi la risposta giusta: l’industria dell’auto sa che il suo futuro non dipende dalla sua competitività in un libero mercato ma dai rapporti di forza in una economia eno-dirigista che con il libero mercato ha ben poco a che fare.

Il ceo di Stellantis Tavares che chiede al governo italiano sovvenzioni per non chiudere le ex fabbriche Fiat è la manifestazione di un sistema non più capitalista ma di tipo neo-feudale, in cui l’economia è subordinata ai rapporti di forza politici.

Quando si è sviluppato il capitalismo la teoria economica che l’ha accompagnato (che si riteneva definitiva) non contemplava l’ipotesi che potessero fallire interi settori economici.

Le battaglie liberiste contro la rendita agraria puntavano a ridurla, in modo da abbassare il costo del cibo e quindi il costo di riproduzione della forza lavoro per l’industria. Ma non hanno mai puntato a far fallire i landlord britannici importando tutto il grano necessario.

Come non è mai stato concepito che potessero fallire le ferrovie o le autostrade o i telefoni. Semplicemente dove c’era un problema si sanciva il “fallimento del mercato” e via con le sovvenzioni.

E qui veniamo alla seconda ragione dello squilibrio totale: la globalizzazione. Quello che nella teoria classica di Adam Smith era il “mercato perfetto”, cioè un’astrazione, una stella polare verso la quale tendere, sembra essersi realizzato.

La concorrenza è libera senza limiti geografici (il costo dei trasporti è diventato irrilevante), senza disparità di conoscenza (tutte le informazioni sono in rete in tempo reale) e senza barriere legali o daziarie.

A questo punto ci accorgiamo però che il mercato perfetto andava bene come astratto riferimento ideale, perché adesso i campioni della competizione non sanno più su che cosa competere.

Lo ammise lo stesso Sergio Marchionne, poco prima di morire, che è una follia avere nel mondo sei o sette grandi gruppi automobilistici che spendono sei o sette volte i grandi capitali necessari a progettare sei o sette modelli di auto tutti uguali.

Le fabbriche di auto adesso competono sulla rispettiva capacità di attrarre incentivi statali in giro per il mondo: Stellantis scuce più sovvenzioni dal governo polacco che da quello italiano e adesso chiede a Giorgia Meloni un rilancio.

Dove però la competizione funziona l’effetto è socialmente costosissimo: chi vince mangia, chi perde muore. Ciò che accade nell’agricoltura.

Governare l’emergenza

Riprendiamo il discorso di prima. Il libero mercato non è in grado di gestire l’emergenza ambientale e non è abbastanza lungimirante da tenere i terreni a riposo. Il governo europeo impone obblighi ma solo agli agricoltori europei che vedono il loro mercato invaso da prodotti stranieri a prezzi stracciati.

La concorrenza straniera non deve sottostare a obblighi ambientalisti, ma sarebbe vincente lo stesso. E se uno produce arance a 40 centesimi al chilo, quello che le produce a 60 è un uomo morto, ed è morto all’istante grazie ai meccanismi del mercato perfetto lubrificati dalla globalizzazione. Basta un sistema di acquisti ben organizzato della grande distribuzione.

Il buyer della Coop, o della Esselunga o della Carrefour andrà dal produttore di pere della Romagna e gli dirà che lui per quest’anno ha bisogno di pere a 35 centesimi perché sennò non gli scatta il premio a fine anno, e che se il nostro produttore non gliele dà a quel prezzo lui ha già pronta un’offerta dall’Argentina.

Le vie d’uscita sono numerose, ed è proprio questo il problema. I governi europei, in nome del mercato, potrebbero mandare al diavolo gli agricoltori con i loro trattori, però per coerenza dovrebbero anche consentire agli allevatori di inquinare a volontà e all’industria dell’auto di insistere sul motore a scoppio.

Oppure possono governare l’emergenza, difficilmente facendo marcia indietro sui terreni a riposo e sui pesticidi, più realisticamente rimodulando le sovvenzioni.

Alla fine l’Europa dovrà decidere quanto e come sovvenzionare l’agricoltura più di quanto non faccia attualmente.

Comunque vada, i trattori ci dimostrano che tutto il sistema economico occidentale è andato in tilt: al punto che nella competizione globale è messo alle corde dal capitalismo cinese, un’economia molto competitiva, governata dal Partito comunista cinese e dal suo dittatore eletto a vita. Come vedete, il cambiamento è tale che non abbiamo più le parole per chiamare le cose.

(Estratto dalla newsletter Appunti di Stefano Feltri)

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