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Vi racconto Kabul prima dei talebani

La testimonianza di Paola Sacchi

Lo conoscemmo sul campo a Kabul il generale Giorgio Battisti, oggi in pensione, comandante del primo contingente militare italiano arrivato in Afghanistan nel dicembre del 2001. A Mario Sechi, direttore dell’Agi, ha dato una bella intervista, riportata ieri da Start Magazine, per esprimere il suo rimpianto e dolore e descrivere gli errori fatti dagli Usa pure su tempi e periodo del ritiro delle truppe.

Il generale Battisti ha anche ricordato che, a differenza di Biden, Trump aveva posto precise e stringenti condizioni. Quella mattina del 14 febbraio 2002 Battisti accolse in un aeroporto ancora disastrato, che definire tale era davvero eccessivo, a Kabul, la prima delegazione parlamentare italiana, andata a far visita al nostro contingente. In Italia c’era il secondo governo Berlusconi, la guidavano i due presidenti delle commissioni Difesa e Esteri, di Senato e Camera, rispettivamente Luigi Ramponi, anche lui un ex generale, e Gustavo Selva, ex giornalista, rimasto sempre appassionatamente tale, il celebre “Belva” direttore di Radio Rai2, un signor giornalista di destra negli ultimi anni ridicolizzato e messo alla gogna per quell’errore sull’uso dell’ambulanza. Entrambi erano parlamentari di Alleanza nazionale. Con loro ricordo il deputato Ds Marco Minniti, grande esperto di Difesa, Domenico Contestabile di Forza Italia, Federico Bricolo della Lega allora Nord. Con loro diversi altri e altre parlamentari.

Kabul aveva incominciato da poco a risorgere, per strada incontravi già qualche sguardo sorridente di speranza, donne che sotto il burqa portavano i sandali con il tacco e le unghie dei piedi laccate di smalto. Ma la situazione era ancora drammatica e a rischio elevato. Il generale Battisti salì anche sul pullmino dei giornalisti al seguito della missione parlamentare. Alle donne, tra cui la sottoscritta inviata da Carlo Rossella, direttore di Panorama, allora del Gruppo Mondadori, venne dato dai militari subito un panno di seta per coprirsi la testa. Cortese ma drastico e veloce, perché eravamo comunque in una situazione di rischio seppur ragionato, Battisti ci dette le necessarie istruzioni militari. La prima: “Se sparano abbassate per prima cosa la testa…”. Etc, etc. Ovviamente cose non molto rassicuranti, ma c’era un clima di ragionato ottimismo, anche di razionale entusiasmo da parte di quel generale e in tutta la composizione della missione che andò a far visita alla base del contingente. L’incontro con il premier a interim Hamid Karzai non era in agenda.

Ma Selva, amico personale del primo presidente dell’Afghanistan dopo i Talebani, non si dava pace se non riusciva a incontrare l’amico credo conosciuto in America nel suo lavoro da inviato internazionale. Eravamo a cena la sera prima all’hotel Intercontinental di Abu Dhabi, da dove eravamo partiti a bordo di un C 130 dell’aeronautica militare. Selva disse: “Domani vedrete che si andrà anche da Karzai “. Minniti fece una smorfia e un sorriso ai giornalisti. Ma quando Selva riuscì a mettersi in contatto telefonico con Karzai e sentì “Ciao, caro Hamid ” rimase un po’ di sasso e gradevolmente si mise a scherzare: “Dai Gustavo, allora dillo che sei voluto venuto qui per tenerci sulla corda. Complimenti. Ma che Iddio ce la mandi davvero buona…”.

C’era un bel clima cordiale e scherzoso, inevitabile del resto in una situazione del genere, tra rappresentanti di forze politiche di governo e opposizione. Nel pomeriggio andammo al Palazzo presidenziale. Appuntamento cruciale, dopo la visita al contingente , dove si registrò anche commozione e grande ringraziamento ai nostri parlamentari da parte dei ragazzi della missione Isaf , ci fu un lungo briefing con i giornalisti del generale Battisti che illustrò tecniche ma anche lo spirito psicologico di empatia verso il popolo afghano decisivo per vincere quella guerra, l’impegno dei suoi militari per addestrare le truppe del nuovo esercito afghano. Ma i giornalisti al Palazzo presidenziale non erano ammessi. Lo scoprimmo alla fine.

Poterono limitarsi ad andare nella residenza privata dell’ambasciatore italiano. Una casetta dalle mura tutte forate dai proiettili , dove neppure il bagno era funzionante. Intanto, fuori c’erano i due pullman ad attenderci, quello per parlamentari e quello per giornalisti che ancora però, appunto, non sapevano di non essere ammessi alla visita a Karzai. Mi insospettii, chiesi a un militare , conosciuto in aereo, se anche il nostro pullman andasse a Palazzo. Non disse nulla. Fece solo dopo una mia certa insistenza un gesto esplicito con la testa, scuotendola in segno negativo. Infatti, quel pullman doveva andare in “gita” al mercato di Kabul.

Fu un attimo, a razzo tornai nella casa dell’ambasciatore per riprendere la giacca che avevo dimenticato. E trafelata, tra saluti con l’ambasciatore e una certa confusione , approfittai per lanciarmi sul pullman dei parlamentari. Mi misi negli ultimi posti, con la testa e il volto coperti dal panno di seta che però presto scivolò via. Alla fine mi scoprirono e il cerimoniale della Camera voleva farmi scendere. Ma eravamo in piena Kabul ed ebbi gioco facile nel dire, suscitando ilarità, “Ah e voi lasciate una povera donna da sola qui…”. Poi, però accadde che i parlamentari iniziarono anche a litigare tra loro su chi poteva essere ammesso e chi no perché intanto Karzai aveva fatto sapere che la delegazione doveva essere più ristretta. E nessuno si occupò più di me.

Arrivai da sola, disconosciuta momentaneamente anche dal portavoce di Selva per ragioni protocollari – “A Pa’, io a te non te conosco “- all’ingresso del Palazzo. Per uno sciocco automatismo professionale portavo sotto il braccio un giornale, preso la mattina in hotel a Abu Dhabi, peraltro pure in lingua araba. I bodyguard di Karzai mi beccarono subito. Allora dissi che ero solo un fotografo, esibendo una vecchia e scassata polaroid, i cellulari non erano quelli di ora. I ragazzini della sicurezza mi dissero: entra, ma solo due foto e poi esci. Mi perquisirono al metal detector.

Ma il leghista Federico Bricolo, che aveva portato con sé irregolarmente anche lui un altro giornalista Max Ferrari, allora direttore di TelePadania, era pure lui lì perquisito al metal detector e mi fece ” Ue’ , giornalista Braveheart!”. Io gli risposi ridendo per scaricare la tensione: “Ma sta’ zitto, che qui si mette male”. Scoprimmo qualche mese dopo che tra quei ragazzini bodyguard si nascondevano i Talebani, dopo un attentato fallito a Karzai , per il quale gli Usa gli mandarono la sicurezza personale. A quei ragazzini a un certo punto, quando stavano per buttarmi fuori dopo le due foto pattuite , regalai un pacchetto di sigarette sottili, dalle quali notai che erano rimasti incuriositi. Si distrassero e praticamente, per non mancarlo, mi buttai addosso a Karzai. Poche domande, ma era uno dei primissimi colloqui con lui della stampa italiana e internazionale. Domanda anche sulla moda, perché Tom Ford lo aveva definito l’uomo più elegante del mondo, per il suo celebre mantello. Karzai però in omaggio all’ Italia , che ringraziò moltissimo, rispose che invece eravamo noi italiani i più eleganti del mondo e elogiò anche la nostra cultura.

Gli chiesi della costruzione del nuovo esercito afghano e lui, etnia Pashtun, mi rispose sull’obiettivo di unificare tutte le tribù sul territorio. Non poteva mancare la domanda sulla situazione delle donne: “Proverò a fare tutto per loro”. Il premier a interim, diventato poi Presidente , era molto contento quel giorno, per la vicinanza, anche fisica, dell’Italia e dell’Occidernte . Si mise a scherzare con i nostri parlamentari: “Scusate il ritardo, ma ero a Jalalabad e non mi lasciavano più andar via. Quando vi parte l’aereo? Faccio il conto alla rovescia… ma via, ce la facciamo…” . Il generale Battisti ci riaccompagnò in aeroporto, felice che tutto fosse andato bene. Anche se atterrati a Roma sapemmo che mentre noi ci imbarcavamo i Talebani avevano fatto un massacro in aeroporto. Ora, un tremendo pugno nello stomaco vedere in quelle stanze, davanti a quei quadri, a quei velluti del bel Palazzo presidenziale i Talebani.

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