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Aereo Kabul

Che cosa succederà in Afghanistan con i talebani. Parla il generale Battisti

L'intervista di Mario Sechi, direttore dell'Agi, al generale Giorgio Battisti, il primo comandante del contingente italiano in Afghanistan

 

La guerra è un’esperienza che segna l’anima per sempre. Giorgio Battisti è un generale dell’Esercito che l’ha vista tutta, brutta, sporca, cattiva, piena di eroismi che non fanno notizia ma restano nel cuore. È stato il primo comandante del contingente italiano in Afghanistan, ha sulle spalle tante missioni, molti anni della sua vita in prima linea, la mente sempre rivolta ai compagni che con lui hanno combattuto la battaglia più difficile, quella per la pace.

Kabul, Herat, qui i suoi soldati hanno lavorato per la ricostruzione dell’Afghanistan, quello che la diplomazia chiama “nation building” e si traduce nel lavoro più difficile e pericoloso che esista sulla faccia della Terra. Vent’anni dopo, il ritiro delle truppe, l’Occidente volta le spalle al popolo afghano, la decisione del Presidente Joe Biden di lasciare l’Afghanistan al suo tragico destino che si sta compiendo in queste ore cariche di morte.

L’ammaina bandiera a Herat, ripiegato il tricolore, anche noi a casa, come tutti, in silenzio, solo un mese dopo quel rito senza gioia, quasi un presentimento, arriva la notizia, poche ore fa, la caduta della città in mano ai Talebani, le cronache dell’orrore.

Il generale Battisti oggi è in pensione, ma non si è mai ritirato, è il punto di riferimento di centinaia di soldati italiani che hanno condiviso con lui il sudore, le lacrime, la divisa che è un destino comune, un uomo di grande cultura, uno stratega, per molti, un padre. È lui il testimone del tempo che mi conduce in questo viaggio tra il presente e la memoria. Andiamo in Afghanistan, il teatro della lunga guerra.

Generale Giorgio Battisti, Herat, che fu la base dei militari italiani, è caduta. Cosa prova?

Sono arrivato in Afghanistan a dicembre del 2001, con il primo nucleo di italiani che, insieme all’ambasciatore, doveva aprire l’ambasciata e creare le basi per l’arrivo del primo contingente. Provo una grandissima tristezza, perché in 20 anni di nostra presenza – e anche di mia presenza personale – ho avuto modo di conoscere quello splendido popolo, quell’affascinante società. Abbandonare così, vedere come finisce questo lungo periodo di nostra presenza e di nostro sacrificio, mi crea una grande tristezza, soprattutto per le popolazioni che torneranno sotto questo buio e orribile regime dei talebani.

Le nostre truppe hanno ammainato la bandiera l’8 giugno, il 12 luglio hanno lasciato Herat, un mese dopo, la caduta. É sorpreso dalla rapidità del collasso afghano?

Sono sorpreso. Ma bisogna fare una premessa: già due anni fa, i principali vertici militari americani che si erano succeduti al comando della missione avevano preannunciato che le forze di sicurezza afghane non erano capaci di sostenere da sole l’eventuale offensiva talebana. Questo è stato detto due anni fa, ripetuto l’anno scorso ed è stato detto anche pochi mesi fa da quelli che erano fino a pochi giorni fa in carica al comando della missione. Quindi era una cosa prevedibile, previdibilissima. I tempi in cui i Talebani sono riusciti a occupare più della metà dell’Afghanistan, sono invece stati sottovalutati, perché si pensava che le forze di sicurezza, il governo afghano, potessero tenere almeno per qualche altro mese.

Invece c’è stato un rapido deterioramento.

Sì, un effetto domino, ne ho parlato anche con alcuni colleghi afghani, si è creato questo spirito della sconfitta, questa idea che ormai c’è poco da fare, per cui i militari preferiscono arrendersi, sono convinti che l’onda talebana sia irreversibile.

Gli inglesi, il ministro della Difesa, Ben Wallace, dicono che l’Afghanistan è ormai dentro la spirale di uno Stato fallito. Quali possono essere le conseguenze?

L’Afghanistan è una terra di mezzo. Crea un vuoto di potere nel quale potranno svilupparsi, riprendere fiato, le formazioni terroristiche storiche: Al Qaeda, l’Isis che si è impiantato in Afghanistan dopo la cacciata dall’Iraq e dalla Siria, con l’intento di creare il Califfato. C’è la possibilità che queste formazioni terroristiche, che sono circa venti, tra i vari gruppi, sulla base etnica, possano svilupparsi ed esportare il terrorismo anche nei paesi limitrofi: verso i paesi dell’ex Unione Sovietica, Tagikistan, Kazakistan, verso la Cina, dove ci sono gli Uiguri che sono i cinesi musulmani, alimentare ancora di più il Pakistan…

È un effetto domino.

E può creare questa espansione. Senza dimenticarsi – e sfugge a molti – che l’Afghanistan oggi è il principale produttore di droga.

Il più grande esportatore di oppio del mondo.

Arriva dall’Afghanistan. E ci sarà un’ulteriore esportazione, un ulteriore flusso di droga, i Talebani e le altre formazioni terroristiche si finanziano con la droga.

Come può sopportare l’Occidente il peso di una simile scelta, della ritirata?

Il problema è che l’Occidente è andato in Afghanistan perché ha seguito gli Stati Uniti. Che sono l’unica potenza in grado d’intervenire a così grandi distanze, con uno strumento militare elevato, di grande potenza e capacità tecnologica. Parlo di trasporti aerei strategici, dell’intelligence, del supporto di fuoco aereo. Chiaro che l’Occidente sull’onda dell’attentato alle Due Torri ha seguito gli Stati Uniti, che avevano invocato l’applicazione dell’articolo 5 del Trattato Nato che prevede l’aiuto di tutti gli altri membri a un paese sotto attacco.

Gli americani già un anno fa, con la presidenza Trump, avevano detto che si sarebbero ritirati, scelta confermata da Biden, però senza imporre condizioni. Nell’accordo di Doha del febbraio dell’anno scorso c’erano chiare condizioni: il cessate il fuoco, interrompere i contatti con Al Qaeda e gli altri gruppi terroristici, avviare i colloqui inter-afghani, tra i Talebani e il governo afghano, tutti fatti che non si sono verificati. Aggiungo un altro aspetto.

Quale?

Tradizionalmente il periodo estivo – da aprile fino a ottobre – è quello della stagione dei combattimenti. Si scioglie la neve sui passi che collegano Afghanistan e Pakistan, possono così riprendere i collegamenti per il rifornimento di munizioni e il movimento di uomini e così via. Sarebbe bastato dire ci ritiriamo a ottobre, a novembre, quando i movimenti sono più difficili, invece la decisione è giunta nel pieno della stagione dei combattimenti.

La scelta della data del ritiro ha favorito l’avanzata.

Sì, anche perché inizialmente l’ultimo soldato americano avrebbe dovuto ritirarsi l’11 settembre, quindi sarebbe stata un’ulteriore beffa, la seconda sconfitta dopo l’attentato alle Due Torri, forse si sono accorti dell’errore e hanno anticipato a fine agosto.

Il commissario europeo Paolo Gentiloni ieri ha commentato: “Anni di impegno italiano cancellati. Si discuterà a lungo su questa guerra e sul suo epilogo”. Ecco, discutiamo. Lei condivide?

Indubbiamente sì. Ma ritengo che sia una povera considerazione. Noi in questi 20 anni abbiamo dato un’impulso alla società afghana che era chiusa nel grigiore del regime talebano, abbiamo fatto vedere ai giovani stili di vita – che poi possono essere seguiti o meno – diversi da quelli che gli hanno imposto i Talebani. Oggi i giovani conoscono il mondo, hanno accesso a Internet, parlano sui social, quindi penso e spero che sia difficile che i Talebani comunque riescano a imporre quel loro regime che era così chiuso come 20 anni fa. Anche se dubito, alcune cronache di stampa dicono che nelle città che hanno occupato hanno reimposto il burqa, la sharia, chiuso le stazioni radio. I primi segnali non sono positivi. Indubbiamente c’è il rischio, come dice Gentiloni, che si torni a vent’anni fa. Nel massimo distacco di tutto il mondo e soprattutto della comunità occidentale.

Chi si fiderà mai più di una coalizione occidentale in un teatro di guerra?

Avvenne così anche nel 1975 con il Vietnam del Sud. Solo che allora c’era Kissinger, l’incaricato speciale per i rapporti con il Vietnam del Nord, e negli accordi di Parigi del 1973 aveva chiesto al Vietnam del Nord un decente intervallo prima di occupare il Vietnam del Sud. Sono stati due anni. Alla fine il Vietnam del Sud è caduto. E tutti noi abbiamo in mente gli elicotteri che abbandonavano l’ambasciata americana di Saigon con le persone appese ai “pattini”. È difficile fidarsi al 100%, abbiamo avuto altri esempi, è successo di recente con i curdi, che sono stati abbandonati. E c’è sempre Taiwan, se io fossi un governante di Taiwan, comincerei a dubitare dell’appoggio completo da parte degli Stati Uniti.

Di ritiro si discuteva da anni, da Obama in poi, fino a Trump che lo mise come obiettivo della sua campagna elettorale del 2020. Ma nella exit strategy di Biden appaiono degli errori di valutazione della situazione sul terreno enormi. Com’è stato possibile?

Errori dell’intelligence no. Sono usciti diversi “anonimi” sulla stampa statunitense, ma anche dei generali ancora in servizio, che avevano – in modo un po’ light – comunque delineato questa possibile soluzione. Hanno prevalso valutazioni di carattere politico su quelle del terreno. Ancora adesso il Presidente Biden dice che non si è pentito di aver chiuso la missione ad agosto.

Il presidente Biden dice: “Gli afghani devono combattere”. Per ora le notizie sono quelle di una carneficina e di una resa totale di fronte all’avanzata dei Talebani. Lei è un generale, ha operato sul campo, le chiedo… come possono combattere?

Un altro errore, che avevo già verificato, è che abbiamo cercato di plasmare le forze armate afghane secondo i nostri modelli occidentali, dimenticando che un esercito è espressione della storia, della cultura, delle tradizioni e dell’ordine politico del proprio paese. Abbiamo cercato di imporre il nostro modello occidentale su dei guerrieri che hanno sempre fatto della guerriglia il loro modo di combattere. Non un sistema di combattimento convenzionale.

Erano abituati a fare la guerra asimmetrica.

Sì, la guerriglia. I Talebani fanno la guerriglia. Tanto è vero che gli unici che combattono bene in questo momento sono i “commandos” afghani, che purtroppo sono pochi, circa ventimila, perche’ combattono con gli stessi sistemi della guerriglia talebana, cioé il loro innato modo di combattere. Del resto, la fama degli afghani era quella di essere i piu’ temibili guerrieri di tutta l’Asia Centrale.

Anni fa, il generale David Petraeus, mi spiegò come funzionava la strategia “Anaconda” in Afghanistan e in Iraq. Era una questione di coinvolgimento delle parti in gioco sul terreno (a cominciare dalla politica, ovviamente), di combattimento della coalizione e addestramento dell’esercito afghano. Petraeus comprava tempo. Ma l’amministrazione Obama cominciò a demolire questa strategia, fin dalle operazioni di combattimento, il ministro della Difesa, Leon Panetta disse che entro la fine del 2013 sarebbero terminate. Il declino della missione comincia da qua?

Il primo errore è stato commesso dal Presidente Bush nel 2003, quando ha distolto buona parte delle risorse militari dall’Afghanistan per attaccare l’Iraq. Perché nel 2003 i Talebani erano sotto pressione, erano stati dispersi, c’erano pochissime sacche ancora di resistenza che potevano essere eliminate, e quindi poi si poteva pretendere un accordo politico con questa fazione.

Il secondo più grave errore è stato fatto dal Presidente Obama, quando su insistenza dei propri generali aveva concesso il rinforzo di oltre 30 mila uomini nel 2010, quello che è stato chiamato poi “surge”, ma precisando che sarebbero stati distaccati solo a tempo determinato, quindi iniziando il ritiro a fine 2011.

I Talebani, che non sono fessi, hanno aspettato che questi rinforzi si ritirassero, in attesa di riprendere poi l’offensiva. È da fine 2011 che il contingente internazionale – che era arrivato fino a 140 mila uomini – ha iniziato a ritirarsi. È come se il presidente Roosevelt, dopo lo sbarco in Normandia, avesse detto: “Una volta che abbiamo occupato la Francia, ci ritiriamo”. Il terzo errore è stato di Biden che non ha posto condizioni serie nei confronti dei Talebani.

Biden dice che non ha rimpianti. Lei ne ha?

Sì. Io ne ho molti. Ho conosciuto tantissime brave persone, il popolo afghano è fantastico, affascinante, ha sempre sofferto il transito di eserciti e devastazioni, fin dai tempi dell’invasione di Alessandro Magno. Sono miei amici, sono miei fratelli e temo di vedere ora quello che succedeva quando qualche filmato trapelava nei periodi del regime talebano.

Il nostro Stato Maggiore della Difesa secondo lei aveva elementi sufficienti da parte americana per valutare questo scenario disastroso?

Non voglio fare la difesa di parte, ma ritengo che il nostro Stato Maggiore abbia operato bene, d’intesa con tutti gli altri partner della coalizione presenti. Ci siamo ritirati con tutti gli altri, senza andarcene via prima. Non si poteva fare diversamente, perché comunque bisogna ricordare che il “grande fratello” statunitense è quello che fornisce l’intelligence, il supporto aereo di fuoco, il trasporto strategico, è quello che delinea gli indirizzi da seguire.

Guardiamo la mappa militare aggiornata. Con la caduta di Herat i Talebani controllano tutto l’Afghanistan occidentale. Mi pare ci sia una strategia per circondare Kabul. È così?

Ritengo di sì, prima hanno cercato di isolare il Paese occupando tutti i valichi di frontiera, sia al Nord, verso il Pakistan e verso l’Iran.

Così bloccano i rifornimenti. 

Esatto. Hanno interrotto tutte le rotabili, tutti i collegamenti stradali. Poi hanno iniziato anche a bombardare gli aeroporti, un po’ alla volta stanno strozzando tutta l’organizzazione difensiva del governo.

Una sorta di guerra d’attrito. Stanno cingendo d’assedio Kabul fino a farla implodere.

C’è questo rischio. Penso che sia difficile occupare Kabul combattendo casa per casa, quartiere per quartiere. Kabul è difesa da decine di migliaia di uomini, è una città molto grande. È più facile, come è accaduto a Ghazni, a Herat, in altre città, che ci sia l’implosione del governo centrale e i militari poi cedono perché non hanno direttive e supporto morale.

I Talebani sanno combattere. Hanno una strategia.

Hanno un’esperienza di vent’anni di combattimento, sicuramente sono supportati da professionisti stranieri, leggevo che tra loro ci sono militari pakistani, hanno potuto vedere come ha combattuto l’Isis in Siria, hanno preso un po’ da loro, ammesso che non ci siano combattenti dell’Isis nelle loro fila. E in più questi vent’anni hanno copiato il modo di combattere degli occidentali. I Talebani hanno delle forze speciali, che si chiamano “Red Team”, che sono equipaggiate e hanno le stesse tecniche delle forze speciali occidentali.

E in più, ogni volta che conquistano una città, si impossessano dell’arsenale e dei materiali dell’esercito.

Come è successo in Iraq a Mosul nel 2014. Una grandissima quantità di materiale altamente tecnologico e efficiente che è caduto nelle mani dei Talebani. Si vedono gli equipaggiamenti che hanno, sembrano quelli di un esercito occidentale.

Qual è la lezione per l’Italia?

La lezione è che bisogna impegnarsi fino in fondo, senza indicazioni di carattere politico, nell’utilizzo delle forze armate, nel rispetto dei nostri principi comportamentali dettati dalla democrazia, nel rispetto delle regole di ingaggio. Impegnarci quando siamo sicuri che possiamo ottenere qualcosa. Chiaro, dirlo adesso è molto facile. Vent’anni fa, quando siamo arrivati a Kabul, sembrava di poter aprire una nuova finestra, una nuova pagina di vita per questo paese. Non è facile fare questi apprezzamenti adesso, ma dobbiamo tenerne conto per il nostro impegno, sempre più serio, nel Sahel.

(Estratto di un’intervista pubblicata su Agi.it; qui la versione integrale)

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