skip to Main Content

Ecco gli effetti della web tax sulle aziende digitali italiane. Report Prometeia-Netcomm

Quali conseguenze avrà la web tax secondo il consorzio del commercio digitale italiano Netcomm e la società di ricerche Prometeia? Ecco numeri, stime e scenari

La web tax sarà un danno per l’ecosistema digitale italiano, almeno se resta nella formulazione attuale.

E’ la conclusione di uno studio commissionato da Netcomm a Prometeia: nel peggiore dei casi, le imprese dell’e-commerce in Italia potrebbero perdere in tre anni fino a 2 miliardi di euro di produttività (un’incidenza dello 0,06% sulla produzione complessiva dell’economia) e quasi 17.000 addetti (lo 0,07% del totale di riferimento) rispetto allo scenario base senza imposta, mentre il maggior gettito fiscale supererebbe di poco i 250 milioni di euro. Nel quadro migliore la produttività persa potrebbe essere di circa 164 milioni e la riduzione dell’occupazione di circa 1.550 addetti.

Netcomm, il consorzio del commercio digitale italiano che rappresenta gli interessi di oltre 75.000 aziende che vendono online ai consumatori in Europa, non è contraria alla tassazione delle imprese del digitale, ma chiede una definizione più certa del quadro normativo e una sostanziale modifica della proposta della Commissione europea: la tassazione in base ai profitti e non al fatturato.

CHE COSA PROPONE L’UE

Lo scorso marzo la Commissione europea ha presentato una proposta legislativa per l’introduzione di norme comuni sulla tassazione delle attività svolte nell’ambito dell’economia digitale. La soluzione ad interim (come riportato anche da Start Magazine) prevede un’aliquota del 3% sulle vendite delle imprese dei servizi digitali con oltre 750 milioni di euro di fatturato globale e 50 milioni di euro fatturati nei paesi Ue. Il Consiglio dell’Ue da mesi discute in ambito Ecofin questa proposta senza aver trovato un accordo; l’intenzione della Commissione e della presidenza di turno austriaca è di approvare la formula provvisoria entro il 31 dicembre per abbandonarla nel momento in cui si ottenesse un consenso internazionale in ambito Ocse su come e chi tassare nella digital economy.

CHE COSA PROPONE L’ITALIA

Con la legge di Bilancio 2018 anche l’Italia ha elaborato una proposta di web tax che prevede, a partire dal primo gennaio 2019, l’applicazione di un’imposta del 3% sui servizi digitali B2B. L’iter ha subito uno stop anche perché si attende la decisione a livello Ue  ma nei giorni scorsi il ministero delle Finanze ha fatto sapere di voler riprendere in mano i decreti attuativi. A inizio mese il ministro Giovanni Tria aveva chiarito all’Ecofin che “l’Italia è parte del club di paesi che ha già introdotto una digital tax e ne ha sospeso l’implementazione per tenere in considerazione le discussioni europee. Ma introdurremo la tassa se non avremo questo accordo alla fine dell’anno”.

“Al momento non è stato emanato dal governo italiano un decreto per la definizione degli ambiti di applicazione di questa imposta e il quadro normativo europeo appare ancora estremamente incerto”,, commenta Roberto Liscia, presidente Netcomm. “Le attuali norme sulla tassazione delle società non sono adatte alle realtà della moderna economia e certamente questo è un problema globale che richiede una soluzione globale”.

RICADUTE SU INVESTIMENTI E COMPETITIVITA’

Nello studio realizzato per Netcomm, Prometeia ha usato il proprio modello multi-settoriale dell’economia italiana e ha analizzato le possibili ricadute complessive di un’imposta sui servizi B2B del settore dell’e-commerce. La ricerca ha tenuto conto di quattro canali di trasmissione dell’imposta. Il primo è rappresentato dai consumi: le imprese potrebbero decidere di traslare il carico della tassazione sui prezzi e quindi sui consumatori; i consumi scendono e così il fatturato delle imprese. Secondo canale: investimenti e innovazione. L’impatto su consumi, e quindi un clima meno favorevole, potrebbero condizionare negativamente gli investimenti e lo sviluppo dell’innovazione digitale. In particolare la nuova proposta di tassazione potrebbe dirottare le scelte di investimento delle aziende internazionali verso paesi con un sistema fiscale ritenuto più conveniente (Stati Uniti e Asia). Terzo canale di trasmissione dell’imposta individuato sono le Pmi che, disponendo di un minor poter di mercato, potrebbero incontrare maggiori difficoltà a scaricare a loro volta l’imposta sui clienti. Quarto, la base imponibile, che potrebbe ridursi per effetto avverso della web tax.

TASSARE GLI UTILI, NON IL FATTURATO

“Dal nostro ruolo di esperti del settore e-commerce, siamo favorevoli all’applicazione di un’imposta sulle società che operano nel mercato digitale purché essa sia basata sui profitti e non sui fatturati e a parità di condizioni nel contesto fiscale, in modo che le imprese siano tassate in modo equo e non discriminatorio”, afferma il presidente di Netcomm Roberto Liscia. “I merchant europei e, a seguire, i consumatori saranno coloro che sosterranno il peso economico maggiore”.

Un altro aspetto che deve essere considerato, secondo Liscia, è la protezione delle imprese: “La web tax metterà inevitabilmente le aziende europee in una posizione di svantaggio rispetto a quelle non Ue, perché attualmente non disponiamo di mezzi legali per garantire l’applicabilità della tassa nei confronti di società fuori dai confini europei”. Secondo Liscia la la web tax così come è disegnata disincentiverebbe le imprese e in particolare le Pmi dall’effettuare investimenti per la loro crescita.

Il settore dell’e-commerce in Italia ha un impatto sul Pil dell’1,6% e una bilancia positiva dell’export (circa 4 miliardi di euro), rilevano i dati Netcomm. Il valore realizzato dall’e-commerce italiano nel 2017 è stato di 23,5 miliardi di euro; la stima per il 2018 è sopra i 27 miliardi di euro, con un tasso di crescita del 15-20%, in linea con gli anni precedenti.

Back To Top