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Casaleggio

Tutte le differenze fra Usa, Francia e Italia nel Venture capital

Che cosa è scritto nel rapporto curato dalla società Casaleggio Associati di Davide Casaleggio su venture capital e innovazione digitale Gli Stati Uniti? Il luogo ideale per far nascere un’impresa, soprattutto digitale. Gli Usa restano avanti anni luce rispetto all’Europa, ma l’Italia resta il fanalino di coda anche rispetto a contesti simili, come la Francia.…

Gli Stati Uniti? Il luogo ideale per far nascere un’impresa, soprattutto digitale. Gli Usa restano avanti anni luce rispetto all’Europa, ma l’Italia resta il fanalino di coda anche rispetto a contesti simili, come la Francia. Da noi “quell’ecosistema” che costituisce il terreno di coltura dell’economia digital “è ancora in fasce”. Lo sostiene uno studio sul Venture Capital da poco pubblicato dalla Casaleggio Associati, che traccia del nostro paese un ritratto non certo esaltante, almeno a paragone di altri paesi. In sintesi: da noi le imprese, ammesso che se riescano a nascere, sono costrette a rimanere nel recinto del mercato nazionale. Se però vogliono crescere, necessitano di capitali stranieri. Di fatto, di essere assorbite. Ecco perché secondo Davide Casaleggio, servirebbe un maggior intervento dello Stato (un’uscita che ha dato il la a un dibattito che potete leggere qui su Startmag)

COS’È IL VENTURE CAPITAL

Il Venture Capital è un sistema di finanziamento di impresa, sostanzialmente la “benzina” – spesso proveniente da privati – che spinge sul mercato le start-up, non soltanto nella fase iniziale ma anche in quella di crescita e consolidamento. Una pratica diffusissima nella Silicon Valley, capace di creare un contesto che ha permesso ad aziende come Apple, Google e Amazon di svilupparsi.

Il report di Casaleggio analizza il Venture Capital su scala globale e, nella sua prima parte, si concentra su tre casi specifici: gli Stati Uniti (per il loro primato nel settore), l’Italia e la Francia, scelta quest’ultima per il suo contesto non dissimile da quello italiano.

GLI STATI UNITI

Si può dire che il Venture Capital sia stato inventato negli Stati Uniti, dove è utilizzato sin dagli anni ’50. Ma è dal 1979 che ha cominciato a essere “un’industria strutturata”. Ciò avvenne per effetto di una legge che permise ai fondi pensione di apportare denaro al settore, consentendogli di decuplicare il suo flusso arrivando, già a fine anni ’80, a un corrispettivo attuale di 10 miliardi di dollari l’anno. Da allora e fino al 2013, sono 2600 le aziende americane ad aver ottenuto finanziamenti da Venture Capital. Fra esse, ci sono quattro le prime cinque imprese americane per capitalizzazione: Apple, Alphabet (che controlla Google), Microsoft e Amazon. Il Venture Capital non riguarda solo aziende high tech: ne hanno beneficiato FedEx e Starbucks (oltre a Intel, 3Com, Tesla e Facebook).

Secondo il report della Casaleggio, dopo la data spartiacque del 1979 negli USA il 43% delle società ad azionariato diffuso sono state finanziate da Venture Capital. Una quota che coinvolge 38% degli impiegati del Paese e l’82% degli investimenti in ricerca e sviluppo. A proposito di R&S, solo negli Usa nel 2013 le imprese finanziate da Venture Capital vi hanno investito 115 miliardi di dollari. La conclusione, secondo lo studio è che “l’innovazione negli Stati Uniti è passata dal Venture Capital”.

IN FRANCIA

Completamente diverso il contesto francese. Qui il Venture Capital è nato nel 1997, all’indomani del grande sviluppo di Internet. Il Governo transalpino ha promosso da subito una politica di defiscalizzazione degli investimenti in startup e fondi dedicati all’innovazione. Ciò ha messo insieme un “gruzzolo” che ha costituito la fortuna del sistema transalpino perché i fondi hanno consentito alla Francia di sopportare meglio l’esplosione della “bolla di internet” scoppiata fra il 2001 e il 2004. Mentre altri ecosistemi, per esempio quello tedesco e quello italiano venivano spazzati via, in Francia il flusso di finanziamento delle startup è stato invece “abbastanza stabile”. E così sono nate esperienze di successo come Meetic, Priceminister e Business Object.

Dopo il 2012, anche su pressione degli imprenditori, che si sono opposti a un più svantaggioso regime fiscale, si è vista “una straordinaria accelerazione degli investimenti”. Le cifre la certificano: si è passati dai 580 milioni del 2012 ai 2,7 miliardi del 2016.

Non senza un intervento pubblico. Si legge sullo studio della Casaleggio che “l’azione della Banca Pubblica di Investimento è stata una delle principali forze che hanno permesso uno sviluppo così rapido”. In particolare la BPI è intervenuta in attività di co-investimento di varie aziende, sia nella fase iniziale che in quella di consolidamento. Inoltre la Banca ha contribuito a sviluppare un sistema di garanzie per “aumentare la bancabilità delle startup”.

A ciò si è aggiunta l’azione dell’industria privata. I grandi gruppi francesi “hanno svolto un ruolo attivo crescente nell’ecosistema tramite programmi di open innovation e l’investimento in fondi venture per aumentare la propria visibilità”.

“Dal 2013 si stima che 40 grandi gruppi abbiano investito circa 300 milioni nel mondo venture – aggiunge il report della Casaleggio – Come ulteriore risultato di questa attività, si è registrato dal 2015 un significativo incremento delle operazioni di M&A fra grandi gruppi e startup”. Cioè sostanzialmente di fusione.

IN ITALIA

Anche in Italia, come in Francia, il Venture Capital è presente dalla metà degli anni ’90. Ma, sottolinea lo studio della Casaleggio “si è sviluppato con tassi di crescita significativamente inferiori rispetto alle principali economie europee”. Un ritardo che “si è accentuato negli ultimi anni rispetto a Regno Unito, Francia e Germania”.

I casi di successo di imprese finanziate da Venture Capital da noi sono YOOX, Tiscali, Silcon Biosystems, Mutuionline, DoveConviene, ElectroPower Sysstem, BravoSolutioon e Viamente.

Il valore degli investimenti in Venture Capital nel nostro paese non è chiaramente identificabile. Per il report della Casaleggio, che cita varie fonti, nel 2016 oscilla fra 104 e 202 milioni di euro l’anno.

In ogni caso i numeri sono bassissimi rispetto al resto d’Europa. Citiamo solo un caso: “Dealroom (una piattaforma olandese, ndr) nel 2016 stima investimenti pari a 162 milioni”. A fronte di cifre nell’ordine di miliardi in UK, Francia, Germania e Svezia.

Resta il fatto che, in termini relativi, anche in Italia gli investimenti sono in crescita: nel 2016, del 39% rispetto all’anno prima. Il comparto “early stage”, quello che finanzia le aziende nella fase di avvio, fra il 2015 e il 2016 è cresciuto del 5%. E cresce anche il fatturato. Da 1,15 milioni di media del 2015 ai 3 milioni previsti per il 2017.

POCHI INVESTITORI

Gli investitori però sono pochi e molto concentrati: i primi nove operatori (360 Capital Partners, Innogest, Invitalia, Ventures, P101, Panakès Partner, Primomiglio, Principia, Uniter Ventures e Vertis) cubano per oltre il 50% degli investimenti. Parlando di cifre, secondo il report della Casaleggio ciascun investitore nel 2016 si è impegnato in media per 2,5 milioni.

Lo studio sottolinea come il problema, in Italia, sia la copertura economica delle fasi di crescita e consolidamento delle aziende, perché i fondi non sono sufficienti. Insomma, le imprese italiane riescono a nascere (il 71% di loro grazie a capitale italiano), ma non hanno la forza di svilupparsi, e questo comporta “un ridimensionamento delle loro ambizioni”. Spesso devono rinunciare ad operare sui mercati esteri o devono trasferire l’azienda “in ecosistemi più sviluppati”. In generale, soffriamo di “una perdita di competitività rispetto ai concorrenti diretti provenienti da altri ecosistemi”.

IL FONDO ITALIANO D’INVESTIMENTO E ITATECH

Per ovviare al problema, in Italia è stato creato il Fondo Italiano d’Investimento. L’obiettivo è creare una fascia di aziende di media caratura, capaci di competere sui mercati internazionali.

Tuttavia non basta. “Gli investimenti, all’estate 2017 (di cui 142 milioni diretti) sono ancora limitati se messi a confronto con quelli della BPI francese” sentenzia il report.

C’è poi un secondo strumento di aiuto pubblico: la piattaforma ITAtech, un’iniziativa congiunta di Cassa Depositi e Prestiti e Fondo Europeo per gli Investimenti, che hanno stanziato 200 milioni di euro per il lancio di una pattaforma di finanziamento di processo tecnologico.

I SETTORI DI INVESTIMENTO

Lo studio della Casaleggio prosegue analizzando i settori di investimento in Italia. Essenzialmente sono tre: Information Communication Technology, Beni e servizi industriali e Medicale.

“Un elemento mancante della catena del Venture Capital italiano è la possibilità di crescere e svilupparsi con capitali successivi” spiega il report. Di conseguenza, per “mettere benzina” nelle imprese in fase di crescita, si ricorre a sostegno estero, spesso americano. La fase di “scale up”, quella che coinvolge aziende consolidate in cerca di ulteriore sviluppo, è spesso possibile grazie alla quotazione negli USA. Qui, illustra lo studio, si ottengono sei volte più capitali rispetto che in Europa. Si citano infine alcuni esempi: EOS, che è stata acquistata da Clovis Oncology, Venere.com, rilevata da Expedia. E ancora, la milanese Cliccaemangia e la romana Deliverex acquistate dalla londinese Justeat e infine la torinese Mytable e la milanese Restopolis comprate da Tripadvisor.

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LA RICETTA DI DAVIDE CASALEGGIO SUL VENTURE CAPITAL E INNOVAZIONE IN ITALIA

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CHE COSA PENSANO I VERTICI DI ALCUNI VENTURE CAPITAL DELLE IDEE DI CASALEGGIO JR

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