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Telegram

Chi investirà in Telegram?

Telegram è alla ricerca di investitori, ma la cattiva reputazione di cui gode la piattaforma (russa) potrebbe scombinare i suoi piani. L'approfondimento del Financial Times.

Telegram cerca investitori, possibilmente istituzionali. Ma il social russo fondato più di dieci anni fa nella città natale di Putin ha un grosso problema di reputazione che nasce dal suo coniugare la massima libertà di comunicazione con la capillarità, caratteristiche molto apprezzate da jihadisti e gruppi criminali d’ogni risma che in quella piattaforma sguazzano. Ecco cosa scrive il Financial Times in un nuovo approfondimento su uno strumento digitale di cui approfittano tanto Zelensky quanto Hamas e che ora punta a fare cassa.

Gran bazar

Il negozio virtuale di armi la cui vetrina su Telegram esorta ad acquistarle pagando in dollari o in bitcoin è uno dei volti del lato oscuro di questa piattaforma monitorata attentamente da criminologi, esperti di cybersicurezza e naturalmente delle polizie di tutto il mondo.

“Telegram è il social media per i criminali organizzati”, spiega l’executive di LexisNexis Risk Solutions al Financial Times in questo approfondimento su uno strumento che tanto assomiglia, parola di Haywood Talcove, al “Wild West”.

Libero per disegno

Il suo fondatore russo, Pavel Durov, si è sforzato di presentarlo come un’alternativa tutta privacy e niente distintivo ai social delle Big Tech, della cui censura fa volentieri a meno come hanno apprezzato tanti dissidenti di Paesi come Bielorussia, Iran e Hong Kong.

“In alcuni mercati”, conferma Durov, “Telegram è una delle poche piattaforme in cui si possono esprimere” liberamente i suoi 900 milioni di utenti attivi gestiti da uno staff di appena 50 addetti, di cui il 60% superingegneri.

Ma sulla piattaforma ci sono anche i leader mondiali come l’ucraino Zelensky e gli odiati ministri russi, visibili a pochi clic dai militanti di Hamas.

Quartier generale al sicuro

Aiuta il fatto di avere il quartier generale a Dubai, che non eccelle per scrupolo regolatorio, tanto che Durov ne definisce “neutrale” l’approccio.

Una vecchia storia

La storia del fondatore parla per quella di Telegram: era il 2014 quando Durov fu costretto a scappare da San Pietroburgo dopo essersi rifiutato di condividere con le autorità russe i dati personali di un’altra sua creatura digitale molto famosa, ossia il popolare social russo VKontakte di cui fu obbligato a vendere le sue quote ad alcuni oligarchi vicini al Cremlino.

“La fiducia in Telegram”, conferma una docente dell’Università di Zurigo, “è una fiducia proprio in Durov personalmente”.

Dobloni cercasi

I due miliardi di debiti accumulati negli ultimi anni dovrebbero rientrare grazie alla new entry di Telegram, la pubblicità, ma anche dalle sottoscrizioni a pagamento, abbinate ad altre fonti di introito come l’e-commerce, i videogiochi e gli scambi di criptovalute.

L’intero ecosistema di Telegram si regge sulla blockchain TON sviluppata dal suo stesso team che si fa forte di una vasta comunità open source. Anche su questo elemento punta ora Durov per attrarre nuovi investitori, inclusi magari quelli istituzionali che già ora non mancano essendo della partita fondi con sede a Londra e negli States.

Cattiva reputazione

Ma è proprio qui che il sottobosco criminale costituisce un ostacolo, come conferma al Ft David Maimon, docente di criminologia alla Georgia State University dove passa il tempo a infiltrarsi in migliaia di gruppi criminali presenti su Telegram, inclusi 10mila nei soli Usa.

Maimon tuttavia ricorda che la piattaforma tenta di moderare questi contenuti e ne rimuove addirittura a milioni ogni giorno.

Ma è proprio quella che un esperto dell’Integrity Institute definisce la natura “tossica” di questo social che potrebbe fargli fare la fine di X da cui gli inserzionisti sono scappati a frotte per ragioni simili.

Valore aggiunto

Ma niente può oscurare il valore aggiunto di uno strumento usato liberamente e massicciamente dalle milizie filoiraniane come dai fact-checker che smontano le fake news sulla guerra in Ucraina.

Sono gli stessi lati positivi però che hanno permesso ad Hamas di ingaggiare via Telegram dopo il 7 ottobre una guerra psicologica contro Israele a colpi di immagini cruente.

Ma è lo stesso Stato ebraico ad approfittare della piattaforma per rispondere adeguatamente con un canale chiamato addirittura “Le 72 vergini” che prende dunque per il naso i terroristi e la loro credenza di una ricompensa sessuale dopo il martirio.

In mezzo ai fronti contrapposti ci sono gli appena dieci addetti alla policy di Telegram, anche se sono centinaia quelli esterni. Ma le decisioni ultime sui casi più delicati, le prende sempre lui, il capo dalla ben nota reputazione di “eroe del free speech”.

Ogni tanto succede

Peccato che l’eroe ogni tanto cada in fallo, come è successo qualche tempo fa quando la falce della censura si è abbattuta su un bot riconducibile addirittura a Navalny.

“Telegram e altre piattaforme come lei”, spiega al quotidiano il docente dell’Università del Texas Samuel Woolley, “sono strumenti cruciali per la libera espressione e la democrazia. Ma è anche vero – conclude – che sono strumenti terrificanti di controllo e coercizione”.

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