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Google Class Action

Cosa cambierà dopo il colpo del giudice Usa a Google?

Una corte federale negli Stati Uniti ha stabilito che Google è monopolista e agisce illegalmente per mantenere questa posizione nel mercato delle ricerche web. Uno scorporo è possibile ma improbabile: cosa succederà adesso? Fatti, numeri, analisi e commenti.

 

Il 5 agosto un giudice federale negli Stati Uniti ha stabilito che Google è monopolista e che ha agito illegalmente per mantenere questo monopolio nella ricerca online: secondo l’accusa, cioè il dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti, il 90 per cento delle ricerche su Internet negli Stati Uniti passano per il motore di ricerca della società, che grazie a questa posizione dominante riesce a trarre enormi profitti con le inserzioni pubblicitarie.

COSA HA FATTO GOOGLE, IN BREVE

Per la corte del distretto di Columbia, Google Search è così utilizzato non solo per la qualità del servizio ma anche perché è il motore di ricerca predefinito sui dispositivi di Apple e Samsung e sui browser come Firefox di Mozilla: Google versa ogni anno cifre miliardarie – 26 miliardi di dollari nel 2021, per esempio – a queste società per continuare a essere l’opzione di default. Così facendo, sostiene l’accusa, Google ha impedito alla concorrenza di emergere e ha potuto raccogliere grandi quantità di dati degli utenti per migliorare Google Search e renderlo ancora più dominante.

COSA SUCCEDE ORA?

La sentenza su Google è stata definita storica, anche perché l’ultimo grande caso antitrust nei confronti di una grossa società tecnologica (ovvero Microsoft) negli Stati Uniti risale a oltre vent’anni fa, quando Internet e l’industria digitale erano tutt’altra cosa rispetto a oggi.

L’Economist, però, invita a tenere conto di due cose. La prima è che Google farà ricorso in appello, e la pratica potrebbe durare anni. La seconda è che il giudice ha sì identificato il problema, ma non ha proposto una soluzione. Lo scorporo di una parte dell’azienda non sembra probabile (sarebbe il più grande smantellamento forzato da quello di AT&T nel 1984). L’obbligo di condividere i dati sulle attività online degli utenti con le aziende rivali, invece, in modo che queste ultime possano utilizzarli per addestrare i loro algoritmi, sarebbe controverso perché aprirebbe delle questioni di riservatezza (le cronologie delle ricerche degli utenti su Google Search sarebbero accessibili non solo a Google ma anche ad altre società, in breve).

L’opzione più probabile, scrive il settimanale britannico, è che a Google venga proibito di pagare Apple e le altre aziende per essere il motore di ricerca predefinito sui loro prodotti. “Qualcosa di simile accade già nell’Unione europea, dove nel 2018 è stato ordinato a Google di offrire ai consumatori la possibilità di scegliere il motore di ricerca predefinito sui telefoni Android (Apple è stata recentemente costretta a fare lo stesso con i browser dei suoi iPhone). Finora”, nota l’Economist, “sembra che i consumatori, di fronte a queste scelte, optino per lo più per marchi che già conoscono. La quota di Google nelle chiavi di ricerca nell’UE è rimasta invariata fino al 2021”.

LE RIPERCUSSIONI PER APPLE

Se l’antitrust statunitense decidesse davvero di ordinare a Google di terminare l’accordo con Apple, per quest’ultima il danno economico sarebbe notevole: Google le versa circa 20 miliardi di dollari all’anno per essere il motore di ricerca predefinito sugli iPhone, una cifra che equivale al 18 per cento del risultato operativo di Apple nel 2023.

È POSSIBILE SUPERARE GOOGLE? IL CASO MICROSOFT-BING

D’altra parte, l’eliminazione dell’accordo con Google potrebbe spingere Apple a sviluppare un proprio motore di ricerca per gli iPhone e garantirsi così nuove fonti di entrate attraverso le inserzioni pubblicitarie. Non si tratta tuttavia di una strada così semplice da percorrere: come fatto notare da Jonathan Guilford su Reuters, perfino Microsoft, che ha una capitalizzazione di 3000 miliardi di dollari, “ha fatto solo pochi passi avanti con il suo motore di ricerca Bing”.

Bing, che ha una quota di mercato del 5 per cento, ha permesso l’anno scorso a Microsoft di ricavare 12 miliardi di dollari dagli annunci legati alle ricerche web. Il search-based advertising è fruttato invece 175 miliardi di dollari a Google nel 2023, vale a dire più della metà dei ricavi totali(307 miliardi).

L’OPINIONE DI VALLETTI (COMMISSIONE EUROPEA)

“Il breakup, la disgregazione, mi pare l’unica strada per rimediare ai monopoli di Google e delle altre Big Tech. Se ci sarà la volontà politica di percorrerla”. Lo ha detto Tommaso Valletti, esperto di regolazione antitrust ed ex-capo economista della direzione Concorrenza della Commissione europea, a Repubblica.

Considerate le dimensioni di queste società, a detta di Valletti “una disgregazione, la separazione dei vari servizi, è l’unica strada percorribile: in Europa si è scelto di non farlo, ma gli Stati Uniti possono”, benché si tratti di un’opzione giudicata improbabile. È vero tuttavia che esistono dei gruppi progressisti al Congresso – inclusa la senatrice del Partito democratico Elizabeth Warren – che sono molto sensibili al tema del contrasto dei monopoli e favorevoli a un maggiore controllo governativo sulle “Big Tech”.

COSA FARANNO TRUMP E HARRIS?

Non è chiaro quale sarà l’approccio regolatorio nei confronti di Google e simili di Donald Trump e Kamala Harris, candidati rispettivamente del Partito repubblicano e del Partito democratico, qualora vincessero le elezioni presidenziali.

Di Harris sappiamo però che è considerata vicina all’industria tecnologica della California, dove è nata e per la quale ha lavorato come procuratrice e senatrice. Sappiamo inoltre che J.D. Vance, il candidato vicepresidente di Trump, ha speso parole di apprezzamento per Lina Khan, la presidente della Federal Trade Commission nominata da Joe Biden e nota proprio per la sua durezza contro le posizioni dominanti delle compagnie tecnologiche.

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