Con un sospiro di sollievo abbiamo letto stamattina di un primo studio clinico affidabile (pur se preliminare) sul Covid-19.
Lo aspettavamo, noi medici ospedalieri “pratici e praticoni”, dopo tanti bla-bla, in Italia, di epidemiologi e di membri di task-force imbarazzanti.
Imbarazzanti per gli scenari catastrofici immaginati e per gli errori matematici previsionali, pensati e diffusi come se gli italiani fossero un popolo di imbecilli, sprovveduti, incapaci di rispettare le regole protettive elementari (mascherine, guanti, disinfezione delle mani) e come se non avessero dimostrato di attenersi alle regole della “clausura”.
Finalmente, uno studio clinico sui pazienti Covid-19 ospedalizzati, realizzato da un consorzio di ricercatori, denominato ISARIC4C, che ha coinvolto l’Università di Edimburgo e l’Imperial College di Londra, ed è stato coordinato dai Prof. Derek Hill (London College) e Peter Openshaw (ICL).
Uno studio prospettico-osservazionale strutturato per cercare di acquisire informazioni sull’esito clinico dei pazienti Covid-19 più gravi, ossia di quelli che finiscono in ospedale. E basato su un questionario (approvato dalla WHO), poi utilizzato in 166 ospedali inglesi, dal 6 febbraio al 18 aprile 2020.
Lo studio ha coinvolto 16.749 pazienti, con età media di 72 anni.
Quali i risultati? Li elenchiamo brevemente:
Tra i pazienti ospedalizzati il 33% è morto, il 49% è guarito e il 17% era ancora in ospedale (a fine aprile).
Il destino del 17% dei pazienti, ossia di quelli più gravi, arrivati in T.I. (terapia intensiva) o subintensiva, è stato il seguente: morti=45%; guariti=31%; ancora in cura=24%.
Drammatico l’esito dei pazienti sottoposti a ventilazione meccanica: 53% deceduto, 20% guarito; 27% ancora ospedalizzato.
Commento: i pazienti più gravi (ospedalizzati, ventilati, in terapia intensiva o subintensiva) hanno una mortalità per Covid-19 più elevata della media generale.
Constatazione prevedibile, ma che rafforza l’approccio veneto di trattare i pazienti precocemente, sia a domicilio che all’ingresso dell’ospedale, per evitare sia la ventilazione meccanica che l’accesso alle T.I..
Lo studio ha altresì chiarito altri aspetti, altrettanto importanti.
Gli uomini sono più colpiti delle donne ( 60,2% verso 39,8%), in un rapporto 1,51:1;
Pochissimi pazienti under-18 sono stati ospedalizzati (2%);
Le gravide rappresentavano il 6% del totale;
L’invecchiamento costituisce un forte predittore di mortalità (dato già noto..);
L’obesità è un elemento significativo per la mortalità ospedaliera.
Anche questo dato era giaà noto, essendo stato identificato anche nella pandemia influenzale del 2009 (A/H1N1) ma non nella MERS-CoV (sindrome respiratoria da Covid del 2016, nel medio-oriente). Ipotesi?
Gli obesi possono avere una meccanica respiratoria alterata e un importante stato infiammatorio legato al tessuto adiposo.
COMORBIDITÀ
Nello studio, il 53% dei pazienti aveva una o più comorbidità: oltre all’obesità, cardiopatia cronica (29%); diabete controllato (19%); pneumopatia cronica non asmatica (19%); asma(14%). Ovviamente, il 47% dei pazienti non aveva comorbidità.
Altri studi, su piccole casistiche, avevano identificato tra le comorbidità anche l’ipertensione, uno stato canceroso e l’ insufficienza renale (NdR).
Negli 11.326 pazienti, erano presenti tosse (70%), febbre (69%), respiro corto (65%), stanchezza, confusione mentale.
In definitiva il quadro clinico poteva essere respiratorio (tosse, espettorazione-sputo, dolori alla gola, gocciolio nasale, dispnea e dolore toracico), sistemico (febbre, mialgie, artralgie, stanchezza) o gastro-intestinale (dolore addominale, vomito, diarrea).
CONCLUSIONI (SOGGETTIVE)
Questo studio – pur preliminare – fornisce importanti informazioni sia ai clinici che agli “strateghi” dei percorsi organizzativi, in tempo di Covid-19.
Fondamentale si conferma la scelta di tenere a domicilio (e trattare precocemente) i pazienti con sintomatologia più leggera. Nei casi più impegnativi, invece, il ricovero ospedaliero dovrebbe essere prevalentemente indirizzato verso i reparti di malattie infettive o di terapia subintensiva, usando tutto l’armamentario terapeutico finora dimostratosi utile, in attesa del vaccino o di un cocktail farmacologico “codificato”.
Usando cioè quello che è stato usato, empiricamente, finora: idrossiclorochina, remsdesivir, cortisonici, eparina a basso peso molecolare, plasma dei guariti, plasmaferesi o tecniche di assorbimento della IL-6 etc.
In ogni caso, la terapia va personalizzata ossia adeguata al singolo caso clinico, per cercare di guarire il paziente, evitandogli danni aggiuntivi.
Una regola, questa, valida dai tempi di Esculapio e di Anthea.
Stefano Biasioli
Primario Nefrologo in pensione