La Russia è uno dei maggiori paesi produttori ed esportatori di petrolio e gas naturale al mondo. I ricavi della vendita di idrocarburi contribuiscono in maniera fondamentale al sostentamento del suo bilancio, ma l’anno scorso queste entrate sono diminuite del 24 per cento, a 99,4 miliardi di dollari, a causa del crollo delle vendite all’Europa e delle sanzioni internazionali, che hanno reso più costose e complicate le esportazioni. A livello percentuale, nel 2023 l’oil and gas ha contribuito al bilancio federale russo per oltre il 34 per cento.
L’IMPATTO DELLE SANZIONI SECONDARIE ALLA RUSSIA
Nonostante il parziale riorientamento delle esportazioni di combustibili fossili verso la Cina e l’India – che tuttavia non riescono a compensare la perdita del mercato europeo, storicamente più voluminoso e redditizio -, Mosca appare in difficoltà. Non si può parlare di crisi generale, ma il commercio energetico russo sta incontrando qualche problema. Reuters infatti ha scoperto che le società petrolifere russe devono attendere anche diversi mesi prima di ricevere i pagamenti per le forniture di greggio alla Cina, alla Turchia e agli Emirati Arabi Uniti: c’entrano le cosiddette “sanzioni secondarie” – quelle che colpiscono le banche di paesi terzi che gestiscono le transazioni con i soggetti russi sanzionati – imposte dagli Stati Uniti lo scorso dicembre sul modello delle penalità introdotte contro l’Iran nel 2012.
IL NUOVO APPROCCIO DELLE BANCHE CINESI, EMIRATINE E TURCHE
“Nelle ultime settimane”, ha scritto Reuters a fine marzo, “diverse banche in Cina, negli Emirati Arabi Uniti e in Turchia hanno aumentato i requisiti di conformità alle sanzioni [secondarie, ndr], causando ritardi o addirittura il rifiuto di trasferimenti di denaro verso Mosca”. Gli istituti di credito cinesi, emiratini e turchi, prosegue l’agenzia, “hanno iniziato a chiedere ai loro clienti di fornire garanzie scritte che nessuna persona o società presente nell’elenco degli Special Designated Nationals […] sia coinvolta in un affare o sia beneficiaria di un pagamento”.
Negli Emirati, le banche First Abu Dhabi Bank e Dubai Islamic Bank hanno sospeso diversi conti collegati al commercio di prodotti russi. La banca emiratina Mashreq, le turche Ziraat e Vakifbank e la cinesi ICBC e Bank of China, invece, gestiscono ancora pagamenti con soggetti collegati alla Russia ma impiegano più tempo (settimane o mesi).
CI SONO “ALCUNI PROBLEMI”, AMMETTE IL CREMLINO
La questione del rallentamento dei pagamenti è stata sollevata anche dal portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che ha parlato di “pressione senza precedenti degli Stati Uniti e dell’Unione europea sulla Repubblica popolare cinese” che sta creando “alcuni problemi, ma non può diventare un ostacolo all’ulteriore sviluppo delle nostre relazioni commerciali ed economiche” con Pechino.
LA CONFORMITÀ AL PRICE CAP SUL PETROLIO
Commerciare petrolio russo non costituisce una violazione delle sanzioni occidentali alla Russia, purché quel petrolio non sia venduto a un prezzo più alto del price cap di 60 dollari al barile. Finora Mosca è riuscita a reindirizzare le sue esportazioni energetiche dall’Europa all’Asia, ma le sanzioni secondarie potrebbero complicare anche questi commerci: già un ordine esecutivo del dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, emesso il 22 dicembre scorso, prevedeva infatti la possibilità di sanzioni sulle banche che contribuiscono all’elusione del price cap sul greggio russo.
A seguito di quell’ordine, spiega Reuters, le banche cinesi, emiratine e turche che fanno affari con la Russia hanno aumentato i controlli, hanno cominciato a richiedere documentazione aggiuntiva e hanno iniziato a formare del personale specializzato sulla conformità delle transazioni al price cap occidentale. Ad esempio, a fine febbraio le banche situate negli Emirati hanno dovuto aumentare i controlli sui pagamenti dopo che è stato chiesto loro di fornire alle banche corrispondenti negli Stati Uniti e al dipartimento del Tesoro i dati sulle transazioni in Cina per conto di soggetti russi.
LA RUSSIA È IN DIFFICOLTÀ SUL GAS?
La situazione non è rosea, per la Russia, nemmeno sul versante del gas naturale. L’Accademia russa delle scienze, un istituto statale, ritiene che nel 2023 la società gasifera statale Gazprom abbia smesso di essere redditizia e che entro il 2025 potrebbe registrare perdite per 1 miliardo di rubli. Nel 2021 la quota della Russia sul totale delle importazioni di gas dell’Unione europea era superiore al 40 per cento; nel 2023 è scesa all’8 per cento ed entro il 2027 dovrebbe scendere a zero.
Mentre l’Unione europea è riuscita, seppur con difficoltà, a rimpiazzare il gas russo, la Russia non è riuscita a sostituire il mercato europeo: l’aumento delle esportazioni verso la Cina e la Turchia, infatti, ha compensato la perdita del Vecchio continente solo per il 5-10 per cento.
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Quanto invece al gas liquefatto, Novatek – la più grande azienda produttrice di GNL in Russia – ha dovuto sospendere le attività nel progetto Arctic LNG 2 per via delle sanzioni internazionali e della carenza di metaniere adatte alla navigazione nelle acque ghiacciate.
Secondo le fonti di Reuters, la prima unità di liquefazione del sito resterà inattiva fino alla fine di giugno; pare inoltre che al momento Artic LNG 2 possa contare su tre sole metaniere rompighiaccio. Il problema della carenza di imbarcazioni, fondamentali per la commercializzazione del combustibile, è stato menzionato anche dal vice-primo ministro russo Alexander Novak.