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Israele

Energia e gas, tutte le mosse di Israele nella guerra a Gaza

A margine della guerra tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza esiste una questione energetica legata alla produzione e all'esportazione di gas. Tutti i dettagli.

A margine della guerra tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza, scoppiata dopo l’offensiva di Hamas del 7 ottobre, esiste una questione energetica legata all’impatto – non ancora chiaro – che avrà il conflitto sulle forniture e sui prezzi di petrolio e gas naturale.

L’IMPATTO DELLA GUERRA (ATTUALE ED EVENTUALE) SUL PETROLIO

Quanto al greggio, questo impatto pare essere limitato, visto che né Israele né la Palestina sono produttori; in caso di un coinvolgimento dell’Iran a fianco di Hamas, però, le cose potrebbero cambiare.

Teheran è il settimo maggiore produttore petrolifero al mondo, ma gran parte della sua produzione è assorbita dalla Cina, attraverso un meccanismo di compravendita che non prevede l’utilizzo del dollaro e permette dunque di aggirare le sanzioni statunitensi.

L’IMPATTO SUL GAS

Quanto invece al gas naturale, l’impatto della guerra potrebbe essere maggiore e i timori di un aggravamento degli scontri hanno già provocato dei rialzi di prezzo. Non è detto però che le tensioni in Medioriente possano rappresentare un rischio per la sicurezza energetica europea nella stagione fredda: e questo non soltanto per via del peso relativo delle forniture israeliane sulla domanda totale di gas, ma anche perché gli stoccaggi sono pieni per oltre il 90 per cento.

Israele, comunque, vende gas all’Unione europea, che ha bisogno di tutte le forniture possibili di combustibile per compensare il crollo delle importazioni dalla Russia, che prima dell’invasione dell’Ucraina soddisfaceva gran parte del fabbisogno comunitario.

LO STOP DI TAMAR

Per effetto della guerra, Israele ha dovuto sospendere le attività al giacimento di gas di Tamar, nel mar Mediterraneo: si trova a una ventina di chilometri al largo di Ashdod, una città posizionata sulla costa meridionale di Israele. La piattaforma estrattiva è vulnerabile perché si trova entro la portata di eventuali missili lanciati dalla Striscia di Gaza.

Tamar è un giacimento importante soprattutto per la domanda energetica israeliana, ma una parte del suo output viene esportata in Egitto e in Giordania. A sua volta, una porzione del gas israeliano venduto all’Egitto viene da quest’ultimo esportata in Europa in forma di gas liquefatto (GNL) dai terminali di Damietta e Idku: l’impianto di Damietta è co-gestito da Eni.

COS’È SUCCESSO AL GASDOTTO EMG

Il 10 ottobre scorso Chevron – è la società petrolifera statunitense che gestisce il sito di Tamar – ha sospeso le esportazioni di gas israeliano verso l’Egitto e la Giordania passanti per la condotta sottomarina East Mediterranean Gas (EMG).

L’EMG è la principale infrastruttura di collegamento tra l’Egitto e il campo Leviathan: si tratta del più grande giacimento israeliano di gas, situato sempre nelle acque e gestito sempre da Chevron. I flussi passanti per l’EMG erano stati spostati su un’altra tubatura, l’Arab Gas Pipeline, che raggiunge la Giordania e l’Egitto.

L’EGITTO NON RICEVE PIÙ GAS DA ISRAELE. CONSEGUENZE SUL GNL ALL’EUROPA?

A fine ottobre, però, l’Egitto ha fatto sapere che le importazioni di gas da Israele erano nulle, probabilmente – scriveva Bloomberg – per effetto della chiusura del campo di Tamar. È lecito aspettarsi che l’Unione europea riceverà meno GNL dall’Egitto, che sta già facendo difficoltà a soddisfare la propria domanda di elettricità.

LE AMBIZIONI ENERGETICHE DI ISRAELE

La tesi secondo cui l’invasione israeliana di Gaza sia motivata anche da ragioni di egemonia energetica non trova riscontro nei fatti.

È vero piuttosto che l’attacco di Hamas ha complicato le operazioni di estrazione ed esportazione del gas israeliano, e dunque i suoi piani di trasformazione in un polo energetico per il mercato europeo. Questi piani – in breve – prevedono l’aumento della produzione israeliana di gas e l’invio di una parte di questa (attraverso le tubature esistenti) in Egitto, dove potrà essere liquefatta e infine ri-esportata in Europa.

I numeri, però, sono ancora decisamente troppo bassi perché si possa parlare di un hub israelo-egiziano del gas. Nel 2022 le riserve israeliane di gas, che ammontano a 1087 miliardi di metri cubi, hanno prodotto 21 miliardi di metri cubi. Di questi 21 miliardi, la quantità esportata in Egitto (il principale mercato di vendita israeliano) è ammontata a 9 miliardi di metri cubi. Di questi 9 miliardi, quelli che hanno raggiunto l’Europa in forma di GNL sono stati 6 miliardi di metri cubi.

È insomma molto difficile, vista la guerra, che quest’anno Israele possa aumentare le esportazioni di gas e raggiungere gli 11 miliardi di metri cubi previsti da alcuni analisti (prima degli scontri, però).

IL PROGETTO GAZA MARINE

Secondo alcune dubbie ricostruzioni di tipo geopolitico, a Israele la guerra a Gaza conviene perché gli permetterà di garantirsi il controllo assoluto sul giacimento Gaza Marine, a trenta chilometri dalla costa della Striscia. Si stima che Gaza Marine contenga risorse di gas per oltre 1000 miliardi di piedi cubi (una quantità parecchio superiore al fabbisogno palestinese), di cui una parte potrebbe venire esportata.

Era noto da tempo che lo sviluppo di Gaza Marine avrebbe richiesto un accordo politico tra lo stato israeliano, quello egiziano (vi parteciperebbe la società statale EGAS) e l’Autorità nazionale palestinese (che però governa soltanto la Cisgiordania e non ha controllo sulla Striscia di Gaza, in mano ad Hamas dal 2007). Così come era noto che l’avvio delle operazioni nel giacimento avrebbe richiesto tutta una serie di garanzie di sicurezza difficili da onorare.

A giugno, il governo di Israele aveva dato la sua approvazione preliminare allo sviluppo del progetto.

COSA C’ENTRANO GLI STATI UNITI?

Le stesse ricostruzioni geopolitiche parlano anche di un presunto interesse degli Stati Uniti per la nascita di questo hub del gas tra Israele ed Egitto. Un interesse che motiverebbe – stando a queste analisi infondate – fil coinvolgimento americano nelle vicende di Gaza e anche l’invio delle portaerei nel Mediterraneo orientale: la funzione di queste navi non sarebbe solo quella di deterrenza nei confronti dell’Iran e di Hezbollah, ma anche di protezione degli asset gasiferi e del disegno politico-energetico che li riguarda.

Attenendoci ai fatti, sappiamo che gli Stati Uniti hanno interesse a promuovere l’integrazione economica tra Israele e i paesi arabi: un interesse di cui si ha testimonianza con i cosiddetti “accordi di Abramo”, orientati al riconoscimento diplomatico reciproco. L’integrazione economica può essere promotrice della normalizzazione dei rapporti politici, che a sua volta può essere garanzia di stabilità regionale; la stessa stabilità che l’America ricerca in Medioriente per potersene distaccare (almeno parzialmente) e concentrare le sue attenzioni sull’Asia-Pacifico.

Gli Stati Uniti sostengono l’integrazione energetica tra i paesi del Mediterraneo orientale, in particolare tra Grecia, Israele ed Egitto. Per esempio, all’inizio del 2022 si erano espressi a favore degli interconnettori elettrici EuroAfrica (tra Grecia, Cipro ed Egitto) ed EuroAsia (tra Grecia, Cipro ed Israele).

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