La guerra tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza non ha, almeno finora, avuto ripercussioni troppo serie sul mercato del petrolio: c’entra il fatto che né Israele né la Palestina sono produttori rilevanti di greggio, i cui prezzi internazionali stanno anche scendendo. Il Brent, il contratto basato sul mare del Nord, è oggi a 85,5 dollari al barile (-0,3 per cento); il WTI, il riferimento texano, è a 83 dollari (-0,5 per cento).
LA SITUAZIONE NEGLI USA INFLUENZA IL MONDO
Il calo dei due principali benchmark, che prosegue da tre giorni consecutivi, è dovuto anche alle buone scorte di greggio e benzina negli Stati Uniti, superiori alle aspettative. Il paese è sia il maggiore produttore di petrolio al mondo, sia il maggiore consumatore: di conseguenza, la situazione in America finisce per influenzare il resto del pianeta.
PETROLIO E BENZINA
I prezzi statunitensi della benzina sono in diminuzione da tre settimane: il 10 ottobre il prezzo medio nazionale era di 3,68 dollari al gallone, rispetto ai 3,70 dollari del giorno prima. Una buona notizia per gli automobilisti e i consumatori, anche perché si prevede che i prezzi scenderanno ancora, probabilmente sotto i 3,49 dollari al gallone (il minimo dallo scorso aprile), nel giro di una settimana.
Se però la situazione in Medioriente dovesse aggravarsi, i prezzi del petrolio potrebbero crescere. Ma anche in questo caso – ha scritto Patrick De Haan, analista petrolifero per GasBuddy -, “il prezzo medio nazionale [della benzina negli Stati Uniti, ndr] potrebbe scendere di altri 25-45 centesimi entro la fine di novembre”.
E SE L’IRAN…
La guerra nella Striscia di Gaza, si diceva, non ha avuto un impatto concreto sulla produzione di petrolio (su quella di gas naturale sì, invece). Le cose potrebbero tuttavia cambiare se l’Iran – che sostiene Hamas – venisse coinvolto negli scontri, oppure se venissero inasprite le sanzioni americane nei suoi confronti, o ancora se decidesse di ostacolare il passaggio delle petroliere nello stretto di Hormuz, un punto di passaggio fondamentale per il commercio marittimo del greggio.
L’Iran è il settimo maggiore produttore di petrolio al mondo; gran parte della sua produzione è assorbita dalla Cina, attraverso un meccanismo di compravendita che non prevede l’utilizzo del dollaro (e che dunque non verrebbe sconvolto da nuove sanzioni su Teheran).
E SE L’ARABIA SAUDITA…
L’attacco di Hamas a Israele è una ritorsione contro le trattative per la normalizzazione dei rapporti tra Israele e l’Arabia Saudita, che formalizzerebbe la rivoluzione politica del Medioriente (Tel Aviv ha già raggiunto accordi simili con altri paesi dell’area, come gli Emirati Arabi Uniti) e confermerebbe la perdita di rilevanza della questione palestinese nella regione.
Stando al Wall Street Journal, l’Arabia Saudita avrebbe informato gli Stati Uniti – i mediatori dei negoziati con Israele e principali architetti della normalizzazione tra Israele e il mondo arabo – di essere disposta ad aumentare la produzione di petrolio dall’anno prossimo, qualora i prezzi dovessero crescere molto. Da mesi Riad, che è la prima esportatrice globale di greggio, sta volontariamente riducendo il proprio output di 1 milione di barili al giorno, e proseguirà con questa politica di tagli fino a dicembre.
Secondo il quotidiano, la mano tesa dei sauditi alla Casa Bianca sul petrolio sarebbe volto a ottenere l’approvazione del Congresso americano a un patto sulla difesa tra Riad e Washington, parallelo all’accordo di riconoscimento politico tra Riad e Israele.