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Decreto contro caro-energia: fini, problemi e incognite

Che cosa va e che cosa non va nel decreto legge contro il caro energia. L'analisi di Giuseppe Liturri

 

“Facile è cavalcare la tigre, difficile è scendere”. Questo proverbio cinese pare calzare a pennello per descrivere l’ultimo decreto legge varato dal governo venerdì 18 ed arrivato in tempi record in Gazzetta Ufficiale nella tarda serata di lunedì (Decreto Legge 21 del 21 marzo).

Tutte le perplessità espresse in occasione della lettura della bozza, anzi assumono ancor maggiore nitidezza. Il governo non sa come scendere dalla tigre del mercato dei prodotti energetici che ha voluto cavalcare in modo irresponsabile, focalizzandosi solo sul breve termine e allineandosi ciecamente alla strategia concepita dalla UE ed ora i più incalliti liberisti e fautori delle virtù del mercato si trasformano in implacabili statalisti e seguaci delle virtù regolatorie.

Ma la tigre appare difficilmente domabile da 25 centesimi (30 aggiungendo l’IVA) di taglio di accise sui carburanti fino al prossimo 20 aprile e un credito di imposta sui consumi di energia e gas (12% e 20% rispettivamente, che passano a 25% e 20% per le imprese energivore e gasivore). Soprattutto quando si ha l’ambizioso obiettivo di finanziare tali misure, incassando il prossimo 30 giugno ben 3.980 milioni da un “prelievo solidaristico straordinario” applicato a tutte le imprese della filiera energia, gas e prodotti petroliferi.

Sembra di essere tornati nel 1919, quando il Presidente del Consiglio Francesco Saverio Nitti cercò invano di introdurre una nuova imposta sui sovraprofitti di guerra, cosa che riuscì solo in parte poi al suo successore Giovanni Giolitti che, con la sua legge sulla “avocazione dei profitti di guerra”, si scontrò con Luigi Einaudi che la definì “demagogica e inattuabile”.

E proprio di demagogia bisogna parlare, notando che, rispetto alla bozza circolata dopo il Consiglio di venerdì sera, il testo ufficiale qualifica il “contributo” con l’aggettivo “solidaristico”. Poiché le parole hanno sempre un senso (soprattutto quando appaiono nottetempo) e non ricordiamo che siano mai esistite tasse “egoistiche”, ci permettiamo di congetturare che tale aggettivo (solo apparentemente pleonastico) serva a proteggere la norma dalle prevedibili censure di incostituzionalità. Così come è intrisa di demagogia l’apparizione di “Mister Prezzi” con la “possibilità di richiedere alle imprese dati, notizie ed elementi specifici sulle motivazioni che hanno determinato le variazioni di prezzo. Al fine di arginare i fenomeni speculativi, in occasione di particolari situazioni di variazione dei prezzi dei prodotti non determinate dal normale andamento del mercato”.

La foglia di fico della parola “speculazione” appare il classico rifugio di chi non ha previsto ex-ante che un mercato con offerta concentrata e domanda rigida possa generare normalmente ampie oscillazioni di prezzo e quindi sia la progettazione che il funzionamento richiedono particolare accortezza. A “Mister Prezzi” viene riservata la magra consolazione di poter comminare sanzioni a chi non fornisce i dati e poi, una volta ottenuti, ammettere, parafrasando Humphrey Bogart, che “è il mercato, bellezza!”. Non senza aver speso complessivamente circa 3 milioni l’anno per creare un’unità di missione presso il Mise con 2 dirigenti ed 8 addetti ed aver irrobustito la pianta organica dell’ARERA con altri 25 addetti.

Lo stesso approccio è adottato anche con riferimento al prelievo solidaristico, di cui si vorrebbe evitare la traslazione a valle sul consumatore – che ne metterebbe in dubbio la costituzionalità – per mezzo di comunicazioni mensili inviata all’autorità Antitrust con i prezzi medi di acquisto, produzione e vendita di energia elettrica, gas e prodotti petroliferi. Una volta ottenuti tali dati, l’Antitrust può intervenire con sanzioni solo se rileva intese restrittive della concorrenza o abuso di posizione dominante, altrimenti è tutto lecito.

Ammesso e non concesso che si riesca a misurare la febbre, nel migliore dei casi si somministrano solo antipiretici per abbassarla, senza però intervenire sulle cause a monte.

Numerosi i dubbi espressi dagli addetti ai lavori sulla tenuta delle stime del governo. A questo proposito la relazione tecnica al decreto, afferma in modo perentorio che ha basato i propri calcoli sui dati di fatturazione elettronica delle imprese coinvolte, e ritiene che nel semestre ottobre ’21- marzo ’22, rispetto al semestre ottobre ’20 – marzo ’21, emerga materia imponibile per 39.800 milioni da tassare al 10%. Tuttavia durante i giorni scorsi, gli operatori del settore stentavano a ritrovarsi con questo ordine di cifre, soprattutto considerando che fino al 31 marzo è ancora possibile abbattere l’entità del prelievo in modo del tutto lecito. Tra gli altri, in un report della banca d’affari JP Morgan sul titolo Enel, si legge che l’impatto del prelievo è “trascurabile, se non nullo”.

Altri tempi ed altra perizia rispetto all’11 luglio 1992, un sabato in cui la Gazzetta Ufficiale annunciò agli italiani un prelievo del 6 per mille sui depositi bancari esistenti alla mezzanotte del 9 luglio e la conferenza stampa del Presidente Giuliano Amato servì solo per raccontare il fatto compiuto.

Ci possiamo consolare osservando analoghi sussulti in corso in Spagna, dove il Premier Pedro Sanchez dalle colonne del Financial Times ha ammesso l’inconsistenza dei palliativi e che la questione deve essere risolta a livello di Consiglio Europeo, dove però gli Stati membri nella due giorni di incontri appena conclusa, hanno mostrato la solita divisione tra nordici pro mercato libero e mediterranei pro mercato regolato, ed hanno deciso di non decidere. L’ennesima prova del fuoco fallita per capire se le istituzioni europee siano davvero strumento per comporre le divergenze e le asimmetrie o, viceversa, le amplino.

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