Caro direttore,
ormai ti conosco. E ho capito subito che, quando stamattina mi hai consigliato di leggere l’articolo di apertura di L’Economia del Corriere della Sera, avevi colto qualche spunto interessante tra le righe. E infatti.
L’articolo ha un titolo importante (La transizione bloccata. I prezzi record della benzina) e un autore ancora di più: Ferruccio de Bortoli, peso massimo del giornalismo economico nostrano e già due volte direttore del Corriere, oltre che del Sole 24 Ore. Ma la cosa forse ancora più notevole è l’attacco del pezzo, una sferzata contro “chi tiene alla transizione energetica”, che “dovrebbe fare ogni giorno un salutare bagno di realismo. Se non lo fa, inganna se stesso e gli altri”.
Tutto giusto, e anzi sono contento che un giornalista di primissimo piano come de Bortoli si spenda per far passare un messaggio fondamentale. Cioè che la transizione energetica è un processo necessario ma difficile, perché nel giro di qualche decennio dovremo modificare il funzionamento del mondo: sostituire le fonti di energia, cambiare le tecnologie di alimentazione dei mezzi di trasporto, trasformare i processi industriali. I politici e i comunicatori che rinunciano a quel “bagno di realismo” di cui parla de Bortoli sono colpevoli di aver fatto passare l’idea – specialmente tra i giovani – che fare la transizione energetica significhi usare la bicicletta anziché l’auto e installare qualche pannello solare in giro. Magari bastasse questo: come la mettiamo invece con la produzione del cemento o con il cracking per l’etilene?
Bene, anzi benissimo, ha fatto allora de Bortoli a criticare le anime belle che raccontano di un green sempre facile e conveniente. Certo, a dirla tutta non mi pare che in questi anni il Corriere si sia impegnato in una grande battaglia di razionalità e pragmatismo contro alcuni eccessi ecologistici: non basta che una misura prometta una riduzione delle emissioni (spesso marginale, peraltro, ma lasciamo stare) per essere giudicata intrinsecamente virtuosa, siamo d’accordo?
Un approccio corretto alla transizione energetica dovrebbe garantire sì il passaggio a un sistema economico nuovo, ma senza però compromettere quello vecchio; se fosse un’operazione rapida e violenta l’avrebbero chiamata “rivoluzione”, o sbaglio? Quindi ha ragione de Bortoli a sottolineare la crisi del settore italiano della raffinazione petrolifera: del greggio e dei suoi derivati continueremo ad avere bisogno per molto tempo ancora.
In chiusura, infatti, l’articolo della firma economica e finanziaria di punta del giornale Rcs riporta le considerazioni di un ex-dirigente di Eni, Salvatore Carollo, sui rincari della benzina e sull’insufficiente capacità italiana di raffinazione. Il nostro paese, spiega de Bortoli, “ha 11 raffinerie, di cui due bioraffinerie con un’attività di lavorazione nel 2023 di 71 milioni di tonnellate, superiore ai consumi interni (57,4). Si investe poco, se non per la manutenzione. Nonostante i margini rimangano elevatissimi”.
Poi l’articolo passa a esaltare le caratteristiche del mercato italiano, “l’unico in Europa autosufficiente e attrae l’interesse di grandi operatori come gli svizzero-olandesi di Vitol che hanno comprato gli impianti sardi della Saras dei Moratti o la multinazionale Trafigura per l’Isab di Priolo, in Sicilia”. (Ai lettori che volessero saperne di più su queste società – di chi sono, da dove arrivano, cosa fanno -, segnalo gli approfondimenti di Startmag su Trafigura e su Vitol)
A questo punto, de Bortoli passa il microfono a Carollo, che attacca l’Eni per “ridurre la capacità [di raffinazione, ndr] esistente in modo surrettizio, chiamando la chiusura in modo diverso, ovvero la trasformazione in bioraffinerie. Ciò ha già comportato la scomparsa di 15 milioni di tonnellate di capacità a fronte degli 1,5 milioni di tonnellate rimaste, con una riduzione netta di 13,5 milioni di tonnellate perse per sempre”. L’ex-responsabile trading del Cane a Sei Zampe critica la società per la produzione di biocarburanti alla raffineria di Sannazzaro de’ Burgondi, vicino Pavia: “un vero disastro nazionale”, dice. “Pagheremo cara la benzina raffinata da altri che ce la venderanno al prezzo di mercato più elevato”.
Caro direttore, al mestiere dell’analista preferisco quello più umile di giornalista: più che partorire commenti, quindi, mi piace rimanere aggrappato ai fatti. Spero dunque di fare un servizio utile ai nostri lettori nel ricordare un paio di cose.
La prima. Non solo l’Italia, ma anche l’Unione europea – e in parte, gli Stati Uniti – hanno un problema con la raffinazione petrolifera: le aziende del settore sono generalmente restie a investire in nuova capacità produttiva perché il passaggio alla mobilità elettrica – uno dei cardini dei piani di transizione energetica – dovrebbe causare un calo notevole della domanda di combustibili fossili per i trasporti; di conseguenza, gli investimenti fatti oggi potrebbero non generare ritorni soddisfacenti in futuro.
La seconda. La raffinazione petrolifera non è un comparto sacrificabile, un relitto del passato di cui presto non avremo più bisogno. L’industria chimica che produce la plastica – non a caso prima ho menzionato l’etilene – ha bisogno dei derivati del greggio per lavorare; ha bisogno di nafta, ad esempio. La plastica ha tantissimi utilizzi ed è presente pure nelle principali “tecnologie pulite” per la transizione ecologica: nelle automobili elettriche, nei pannelli solari, nelle torri eoliche. Per fare il verde ci vuole il nero.
Evviva la complessità, evviva il giornalismo che la racconta. Sempre, però.
Torno a lavorare.
Marco Dell’Aguzzo