L’industria solare europea ha lanciato l’allarme: il massiccio afflusso di pannelli solari a basso costo dalla Cina sta spingendo le aziende del Vecchio continente sull’orlo della bancarotta. L’Unione europea vorrebbe dominare la manifattura delle “tecnologie pulite” – ovvero i dispositivi cruciali per la transizione energetica, come le batterie, le turbine eoliche, gli elettrolizzatori per l’idrogeno e le celle fotovoltaiche, appunto -, ma potrebbe fallire nell’obiettivo.
L’ALLARME DELL’INDUSTRIA SOLARE EUROPEA
SolarPower Europe, l’organizzazione della filiera solare europea, ha scritto lunedì una lettera alla Commissione europea per denunciare la “forte concorrenza” delle aziende fotovoltaiche cinesi e l’accumulo di grandi quantità di pannelli importati che stanno facendo precipitare i prezzi dei moduli solari: dall’inizio dell’anno sono scesi in media di oltre un quarto, complicando la nascita di una filiera europea.
Il mese scorso Norwegian Crystals, un’azienda norvegese che realizza lingotti per le celle solari, ha dichiarato bancarotta. Pochi giorni fa Norsun, un’altra società solare norvegese, ha annunciato che sospenderà la produzione fino alla fine dell’anno.
I PIANI INDUSTRIALI DELLA COMMISSIONE SONO A RISCHIO
La Commissione europea vuole che entro il 2030 il 45 per cento della sua energia venga generato dalle rinnovabili (martedì il Parlamento si è espresso a favore); di conseguenza il solare fotovoltaico, data la maggiore facilità di collocazione rispetto all’eolico, dovrebbe diventare la fonte energetica più importante nell’Unione. La componentistica fotovoltaica, però, viene prodotta quasi tutta in Cina: già oggi i tre quarti delle importazioni europee di dispositivi solari arrivano dalla Cina, e un domani il blocco potrebbe ritrovarsi nuovamente in una situazione di dipendenza strategica. Dal gas russo alla tecnologia cinese, insomma.
SolarPower Europe ha ricordato che produrre un modulo solare in Europa costa più del doppio rispetto al prezzo medio attuale.
UN RITORNO DEI DAZI È POSSIBILE?
Nel 2012 l’Unione europea aveva imposto dei dazi sulle importazioni fotovoltaiche cinesi per contrastare la concorrenza sleale: la Cina forniva ingenti sussidi alla propria industria solare, che riversava l’eccesso di produzione all’estero praticando dumping. I dazi sono stati rimossi nel 2018 per favorire le installazioni di impianti rinnovabili, di fatto spalancando la porta ai pannelli cinesi. Poco dopo, però, la Commissione ha definito la Cina una “rivale sistemica”; tuttavia, le tariffe non sono state ripristinate, nonostante le tensioni geopolitiche, nonostante il processo internazionale di ristrutturazione delle filiere (pensato proprio per ridurre l’esposizione alla Cina) e nonostante i propositi europei sulla manifattura di tecnologie pulite.
LA CINA DOMINA LE FILIERE DEL SOLARE, DELL’EOLICO E DELLE BATTERIE
Secondo SolarPower Europe – che ha però tutto l’interessa a far alzare il livello di allerta, il forte calo dei prezzi della componentistica solare fa sì che l’obiettivo comunitario di produrre 30 gigawatt di capacità solare in Europa entro il 2030 è “in serio pericolo”. Lo stesso, grossomodo, vale per l’industria eolica europea: la filiera del vento è dominata dalla Cina, anche se in percentuali meno elevate, e le turbine cinesi sono molto più economiche di quelle europee. Anche le batterie, necessarie per l’alimentazione delle automobili elettriche e per lo stoccaggio dell’energia rinnovabile, vengono prodotte principalmente in Cina o con componenti di provenienza cinese.
I CONSIGLI DEGLI INDUSTRIALI
La spesa europea per la componentistica solare è passata dai 6 miliardi di euro del 2016 agli oltre 25 miliardi del 2022, portando a un eccesso di scorte di pannelli. SolarPower Europe sostiene che nei magazzini europei ci sia una quantità di celle fotovoltaiche tale da soddisfare il doppio della domanda annuale europea.
L’associazione consiglia dunque alla Commissione di procedere con un’acquisizione d’emergenza delle scorte delle aziende solari europee e di accelerare il lavori per un regolamento che vieti l’acquisto di prodotti realizzati con il lavoro forzato: il riferimento è allo Xinjiang, una regione della Cina importantissima per la produzione di polisilicio (un materiale necessario alla produzione dei pannelli) ma dove la minoranza degli uiguri viene sottoposta al lavoro forzato e ad altre forme di repressione.