L’incontro tra il presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il primo ministro dell’Australia Anthony Albanese ha portato alla firma, lunedì, di un grande accordo sulle terre rare e gli altri minerali critici per la difesa, l’elettronica e l’energia. Un accordo che dovrebbe permettere ai due paesi – e, per estensione, all’intero Occidente – di ridurre la dipendenza dalla Cina, che attualmente domina le filiere di questi materiali, dalla fase di estrazione fino alla raffinazione e alla trasformazione in prodotti finiti.
“Tra circa un anno avremo così tante terre rare e minerali critici che non sapremo cosa farne”, ha affermato Trump. Si tratta, però, di una previsione troppo ottimistica.
IN COSA CONSISTE L’ACCORDO STATI UNITI-AUSTRALIA SUI MINERALI CRITICI
L’accordo prevede che i governi di Washington e Canberra investano congiuntamente in progetti di estrazione e lavorazione dei minerali critici in Australia, che possiede le quarte maggiori riserve di terre rare al mondo: è preceduta da Cina, Brasile e India e seguita, invece, da Russia e Vietnam.
La collaborazione mineraria tra i due paesi non nasce ora, ma certamente è stata incentivata dalle recenti – ed ennesime – restrizioni della Cina al commercio di terre rare, di cui controlla da sola circa il 70 per cento delle forniture globali, esercitando un quasi-monopolio sulla loro raffinazione. L’approccio di Pechino – le limitazioni, peraltro, riguardano anche altri minerali come il gallio, il germanio, l’antimonio e la grafite – ha dato slancio ai piani americani per lo sviluppo di supply chain alternative e autonome, con il coinvolgimento dei paesi alleati e partner. Ma la sostituzione delle forniture cinesi non sarà né immediata né semplice.
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I PRIMI INVESTIMENTI
La prima fase dell’accordo tra Stati Uniti e Australia prevede, da ciascuna parte, un investimento di oltre 1 miliardo di dollari in sei mesi. Il dipartimento della Difesa americano contribuirà alla costruzione della raffineria di gallio (un elemento impiegato nella costruzione di semiconduttori) di Alcoa-Sojitz nell’Australia occidentale. Inoltre, la Export-Import Bank, cioè l’agenzia governativa statunitense che si occupa di credito all’esportazione, ha emesso delle lettere di interessi per finanziamenti di oltre 2,2 miliardi in progetti minerari: sono state indirizzate ad Arafura Rare Earths (controllata dalla “trumpiana” Gina Rinehart), Northern Minerals, Graphinex, Latrobe Magnesium, Vhm, Rz Resources e Sunrise Energy Metals.
IL RUOLO DI LYNAS
Oltre ai vasti depositi di terre rare, l’Australia può esibire anche il fatto di ospitare l’unica azienda attiva nella raffinazione di terre rare pesanti (un sottogruppo) al di fuori della Cina: si tratta di Lynas, che opera in Malaysia ma vuole espandersi in Texas, le cui azioni sono cresciute di oltre il 150 per cento negli ultimi dodici mesi.
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I DUBBI
Per aumentare le probabilità di successo di questi sforzi di affrancamento dalla Cina, gli Stati Uniti e l’Australia hanno fatto sapere che sosterranno i progetti minerari anche con dei meccanismi di prezzi minimi, in modo da proteggere le aziende da eventuali crolli dei prezzi delle materie prime – magari messi in atto dalla Cina, che come detto domina i mercati degli elementi critici – che ne abbatterebbero la redditività.
A detta della Casa Bianca, gli investimenti americani in Australia sbloccheranno l’accesso a depositi minerari dal valore di 53 miliardi di dollari. Il problema è che le tempistiche sull’entrata in attività di miniere e impianti sono forse esageratamente ottimistiche.
La rivoluzione delle filiere globali delle terre rare – considerato che la Cina controlla da sola il 90 per cento della capacità di raffinazione e il 98 per cento della trasformazione in magneti, secondo Goldman Sachs – richiederà tempo. Per poter rivaleggiare con i gruppi cinesi, le aziende occidentali non dovranno solo acquisire competenze tecniche e raggiungere l’economia di scala, ma anche rendere i loro processi coerenti con le normative ambientali in vigore nei loro paesi, dato che la raffinazione delle terre rare è un’attività potenzialmente molto inquinante.