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Transizione

È nata la “Nato dei metalli” contro la Cina

Per evitare di finire dipendenti dalla Cina per le materie prime della transizione energetica, gli Stati Uniti stanno creando una vera e propria "Nato dei metalli". L'Australia avrà un ruolo centrale. Estratto dal libro di Marco Dell'Aguzzo, “Power. Tecnologia e geopolitica nella transizione energetica”.

L’ascesa di Pechino, oltre ad averne riacceso l’istinto competitivo, ha messo Washington in uno stato di preoccupazione per la sua esposizione alle ritorsioni cinesi e ha posto le basi per la ricerca della potenza mineraria perduta. Non sarà una ricerca solitaria ma di gruppo perché questa “corsa ai metalli” parte da un ripensamento della globalizzazione.

La globalizzazione che conosciamo prevede la dispersione delle filiere tra più paesi al fine di ottenere il costo di produzione più vantaggioso possibile: è un modello chiamato just-in-time, che consiste nel ridurre al minimo i tempi di attesa tra il momento in cui i materiali arrivano nella fabbrica e quello in cui vengono trasformati nelle merci finali. È un sistema che si regge su una perfetta concatenazione di passaggi di frontiere (“giusto in tempo”, appunto) e che ha funzionato bene per molto tempo, ma è andato in crisi con la pandemia e i suoi apri-chiudi continui. La globalizzazione che conosceremo, invece, darà più attenzione alla sicurezza degli approvvigionamenti anziché all’efficienza economica e seguirà il principio del just-in-case: significa che sarà meno ramificata nel mondo e che si concentrerà maggiormente sulla conservazione delle scorte nei magazzini, in modo da rispondere meglio agli intoppi logistici e agli aumenti improvvisi della domanda (“giusto in caso”). Sarà anche una globalizzazione più concentrata, nel senso che si svolgerà – o almeno è quello che vorrebbe l’amministrazione Biden – tra nazioni amiche e lascerà fuori i governi ostili. Ma fare a meno della Cina, il bersaglio di questo tentativo di ristrutturazione delle catene del valore, non è affatto facile.

Per emanciparsi da Pechino, l’Occidente sta facendo squadra. A indossare la fascia di capitano è l’America, che ha formato la Minerals Security Partnership e ha tirato dentro l’Australia, il Canada, la Corea del sud, la Finlandia, la Francia, la Germania, il Giappone, l’India, l’Italia, la Norvegia, il Regno Unito, la Svezia e l’Unione europea. Trattandosi tutti di alleati statunitensi (con l’eccezione di Nuova Delhi, che gioca da libero ma è troppo importante per non venire convocata), la Minerals Security Partnership può essere considerata una “NATO dei metalli”. Nei fatti, è un sistema di sicurezza collettiva delle filiere i cui paesi aderenti si impegnano a garantire il flusso di materie prime critiche, a stimolare gli investimenti pubblici e privati nell’estrazione e nella raffinazione e a rispettare i più elevati standard ambientali e sociali. La presenza, in questa associazione, di venditori e di acquirenti è una caratteristica fondamentale: se non si può livellare il campo di gioco con la Cina, cioè produrre metalli agli stessi costi e condizioni, la si può espellere dal mercato. La sostenibilità diventa la chiave per la diversificazione: non si compra da chi inquina. O almeno in teoria, perché gli Stati Uniti si stanno accordando a margine con nazioni più opache come il Congo, lo Zambia e l’Indonesia.

Anche l’Unione europea ha in programma di istituire una propria alleanza metallifera, il Critical Raw Materials Club, che proprio come l’iniziativa americana si compone di paesi affini e punta a stimolare il commercio etico e a contrastare le pratiche “sporche”. L’esistenza di più gruppi con i medesimi obiettivi e grossomodo gli stessi membri è però il sintomo di un problema: gli alleati sono anche concorrenti nell’accaparramento di minerali. Non ci sono poi garanzie che la riorganizzazione delle filiere avrà successo, sia perché le supply chain sono strutture complesse che non si costruiscono con un paio d’anni e sia perché non è chiaro se le democrazie avanzate potranno produrre abbastanza metalli critici da soddisfare i loro fabbisogni. Più che costringere il resto del mondo ad alzare gli standard, insomma, potrebbero essere i compratori occidentali a dover continuare a coprirsi gli occhi al momento di ordinare il litio e il nichel. L’Unione europea ha firmato una partnership mineraria con il Kazakistan, per esempio, non proprio un’eccellenza democratica.

Anche se sarà un’operazione di concerto, le speranze dell’Occidente si concentrano su un paese in particolare, l’Australia: vuoi per la sintonia politica, vuoi per le importanti riserve di litio, cobalto e terre rare. Al di là dei giacimenti, l’Australia possiede in effetti le caratteristiche giuste per essere una powerhouse della transizione ecologica: alto potenziale eolico e soprattutto solare; vasti e disabitati territori dove aprire miniere e installare parchi fotovoltaici; una forte base industriale nei combustibili fossili e nei metalli (è una massiccia esportatrice di carbone e gas liquefatto e la prima produttrice di litio e minerale di ferro al mondo) che le garantisce competenze e infrastrutture da riadattare ai comparti della sostenibilità; formazioni geologiche da sfruttare per lo stoccaggio della CO2 catturata.

Per affrontare Pechino, Canberra dovrà prima evolvere da estrattrice a raffinatrice di minerali critici, uno sforzo che il governo sta sostenendo con gli investimenti, le normative e la narrazione. «Per dirla nel modo più semplice possibile», spiegava la ministra delle Risorse Madeleine King, «i nostri amici internazionali devono affidarsi a qualcuno, quindi facciamo in modo che si affidino a noi».

(“Power. Tecnologia e geopolitica nella transizione energetica” si può acquistare su Amazon, in libreria e negli store online di MondadoriFeltrinelli e non solo)

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