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Salario Minimo

Si può ancora sperare nel salario minimo in Italia?

Nell’Ue, in 21 dei 27 Stati membri è stato già introdotto il salario minimo ma l’Italia ha deciso di optare per una riforma alternativa, rinunciando all’introduzione di una soglia stipendiale, ma questo implica che si dovranno rafforzare i contratti collettivi nazionali, prevedendo salari giusti. L'intervento di Alessandra Servidori, docente di politiche del lavoro

 

Si torna a parlare di salario minimo all’interno delle novità di questo governo anche se in termini contraddittori. Nell’Unione europea, in 21 dei 27 Stati membri è stato già introdotto il salario minimo ma l’Italia ha deciso di optare per una riforma alternativa, rinunciando all’introduzione di una soglia stipendiale.

Il 30 novembre 2022 era stata approvata in Parlamento la mozione che mette una pietra sopra alla possibilità di istituire una legge sul salario minimo legale. L’Aula aveva impegnato il Governo a tutelare i diritti dei lavoratori con misure alternative connesse alla contrattazione collettiva alla riduzione del costo del lavoro, a taglio del cuneo fiscale, al potenziamento delle politiche attive e dell’alternanza scuola lavoro.

Ma ora pare che la questione si ripresenti perché vero è che la nuova direttiva si applicherà a tutti i lavoratori dell’Ue con un contratto o un rapporto di lavoro ma è anche vero che i Paesi Ue, in cui il salario minimo gode già di protezione, grazie ai contratti collettivi, non saranno tenuti a introdurre queste norme o a rendere gli accordi già previsti universalmente applicabili.

Il problema tutto italiano però è che per i Paesi che non vogliono un intervento legislativo come da noi, si devono rafforzare i contratti collettivi nazionali, prevedendo salari giusti. Ora in Italia ci sono contratti ‘cosiddetti pirata’ che non danno nessuna garanzia. Addirittura alcuni lavoratori di settori deboli non sono coperti da contratti e quindi hanno un salario di 4-5 euro all’ora. Ciò significa che per noi il problema è che nel testo della Direttiva viene introdotto l’obbligo per i Paesi Ue di istituire un sistema di monitoraggio affidabile, nonché controlli e ispezioni sul campo, per garantire conformità e contrastare i subappalti abusivi, il lavoro autonomo fittizio, gli straordinari non registrati o la maggiore intensità di lavoro.

C’è comunque una flebile spinta nella direzione di adottare il salario minimo, perché è un atto di civiltà?

Non è possibile vedere persone che lavorano con una paga da fame. La Germania, ad esempio, ha appena alzato il salario minimo orario a 12 euro, la Francia ha fatto una cosa simile e noi non possiamo rimanere senza. Se non si ritiene che la legge vada bene, si deve dare forza ai contratti conclusi dalle parti maggiormente rappresentative, affinché si applichino a tutti.

Questa è la strada migliore ma rimane sempre per noi italiani lo scoglio dell’applicazione dell’art. 39 della Costituzione e dunque quando si stipula un accordo sindacale contrattuale chi rappresenta chi. Infatti secondo la Costituzione l’articolo 39 riconosce due libertà: da un lato, la libertà del lavoratore di aderire a qualsiasi sindacato (o di non aderirvi affatto) senza che vi possa essere alcuna imposizione da parte dello Stato o discriminazione da parte del datore di lavoro; dall’altro lato, la libertà di costituire sindacati, senza dover chiedere un’autorizzazione alle autorità amministrative e da qui una nascita esorbitante di sigle sindacali.

L’unico obbligo imposto dalla Costituzione ai sindacati è la registrazione, necessaria ai fini dell’acquisto della personalità giuridica e del potere di concludere, con i datori di lavoro, accordi collettivi con efficacia per tutti i lavoratori appartenenti alla categoria. In verità la norma è rimasta inattuata, non essendo mai stati istituiti gli «uffici locali o centrali» presso cui predisporre i registri per l’iscrizione dei sindacati e soprattutto una verifica seria del tesseramento sindacale. Ragion per cui, la giurisprudenza ha comunque riconosciuto ai sindacati, anche se non registrati (e quindi operanti come enti di fatto), la personalità giuridica e la capacità di concludere i contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) applicabili a tutti i lavoratori, anche a quelli non iscritti al sindacato in questione.

Quando l’articolo 39 parla di libertà sindacale si riferisce solo a quella dei lavoratori dipendenti e non anche ai datori di lavoro (difatti, tale norma si inserisce nella parte della Costituzione – che va dagli articoli 35 a 40 – dedicati alla tutela del lavoro).

Sappiamo bene l’importanza che hanno oggi i contratti collettivi nella regolamentazione delle condizioni di lavoro e, soprattutto, nella determinazione della retribuzione minima spettante al lavoratore (il cosiddetto “minimo sindacale”), in attesa di una legge nazionale che stabilisca l’importo sotto il quale una busta paga non può mai scendere. Così se un sindacato, nell’ambito delle trattative con il datore di lavoro, riesce a strappare una concessione in favore dei lavoratori e questa viene formalizzata all’interno del contratto collettivo, la stessa deve essere riconosciuta a tutti i dipendenti, anche a coloro che non aderiscono al sindacato stesso.

Ciò però non toglie che gli imprenditori non possano avere delle proprie rappresentanze sindacali (così come del resto avviene di norma). Tuttavia, la loro libertà sindacale trova fondamento nel più ampio articolo 18 della Costituzione che, come noto, stabilisce la libertà di associazione in favore di tutti i cittadini.

Col tempo, però, l’attività dei sindacati ha assunto una natura prettamente politica, divenendo tali enti dei referenti privilegiati del Governo ogni qual volta c’è da adottare una normativa in materia lavoristica o pensionistica. Essi hanno così perso quella vocazione di tutela del lavoro in senso ampio che avevano un tempo, limitandosi a curare interessi interni e degli iscritti alla propria sigla.

La strenua difesa degli interessi degli occupati è una delle principali cause della rigidità del mercato occupazionale e della disoccupazione. Una normativa più duttile potrebbe garantire il lavoro a una platea più ampia della popolazione, venendo incontro alle esigenze dei datori di lavoro, spesso schiacciati tra il rischio di vertenze sindacali e una insostenibile pressione fiscale (il cosiddetto “cuneo fiscale sul lavoro”).

Dunque la rincorsa delle cosiddette sigle sindacali “pirata” schiaccia la rappresentanza delle sigle sindacali per lo più confederali e una norma che metta ordine anche alla vera rappresentanza sindacale può aiutare i lavoratori e le lavoratrici a essere veramente tutelate e i sindacati a darsi una regolata, per non dire che tornino a fare il loro mestiere ed escano dall’agone della politica.

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