Al di là di tutte le considerazioni di merito fatte in questi mesi sul salario minimo, quello che offende nella linea di condotta da parte delle opposizioni è la sicumera con cui pretendono di avere ragione. L’analisi di Giuliano Cazzola
Non lo sapevamo. Ma dal clamore con cui le opposizioni (tranne Italia Viva) sostengono il loro progetto di legge sul salario minimo si direbbe che l’AC 1275 sia stato consegnato al primo firmatario Giuseppe Conte direttamente dal Dio degli eserciti sul Monte Sinai. Al di là di tutte le considerazioni di merito che in questi mesi sono state fatte e della legittimità di tutte le opinioni, quello che offende nella linea di condotta da parte delle opposizioni è la sicumera con cui pretendono di avere ragione.
Per loro è pacifico che l’introduzione di un salario minimo sia indispensabile (nonostante che i criteri della Direttiva europea non riguardino gli assetti del nostro Paese); che il suo importo corrisponda a 9 euro all’ora (anche su questo aspetto la Direttiva fornisce altre indicazioni ovvero il 60% del salario mediano o il 50% di quello medio); che 3,5 milioni di lavoratori , in larga maggioranza “coperti” da un contratto collettivo stipulato dalle confederazioni storiche, attendano questa misura riparatrice per sconfiggere il lavoro povero, come a suo tempo il reddito di cittadinanza avrebbe dovuto debellare la povertà.
Ed è ancor più inaccettabile che una narrazione siffatta venga presentata dai media “amici del giaguaro” come una cosa pressoché ovvia, acquisita al pari di una verità rivelata al pari di tante circostanze simili: la telenovela degli esodati; l’insostenibilità sociale della riforma Fornero sulle pensioni; il dilagare della precarietà; la povertà e le diseguaglianze esplose sul versante dei redditi e delle tutele.
LA STORIA DEL SALARIO MINIMO
La storia del salario minimo la conosciamo e ne abbiamo seguito tutte le fasi. Dopo il primo smarrimento per l’imprevisto colpo di scena della presentazione di un testo unitario delle opposizioni, il governo ha pensato dapprima di risolvere il problema con un emendamento soppressivo, poi si è reso conto che era necessario cambiare tattica e si è impegnato a presentare una proposta, anche con il contributo del CNEL.
Così, quando è ripreso l’esame in Commissione dell’AC 1275, la maggioranza ha messo le carte in tavola attraverso un emendamento sostitutivo incentrato su di una norma di delega al governo per ridisegnare, entro sei mesi, il sistema delle relazioni industriali attraverso la definizione di un trattamento economico complessivo minimo ( comprensivo di minimi tabellari, mensilità aggiuntive e indennità contrattuali fisse e continuative ma senza scatti di anzianità) per ciascuna categoria: tale trattamento dovrà assumere come riferimento i contratti collettivi più applicati in riferimento al numero delle imprese e dei dipendenti dell’unità contrattuale considerata; e rappresenterà la condizione economica minima da riconoscersi ai lavoratori ai sensi dell’articolo 36 Cost.
Come ha scritto Emmanuele Massagli, presidente della Fondazione Tarantelli, si tratta di una soluzione originale ma rischiosa. Originale perché il meccanismo indicato consente di cimentarsi nell’operazione impossibile di una legge sulla rappresentanza quale condizione e premessa per individuare i contratti “regolari”, ritenuti tali proprio per il fatto di essere stipulati dalle organizzazione comparativamente più rappresentative. In sostanza, sarebbe il monaco a fare l’abito. Nell’emendamento Rizzetto, si rovescerebbe la procedura: sarebbe il contratto più applicato nell’area o categoria di riferimento quello da cui estrapolare il trattamento economico complessivo minimo da applicare a tutti i lavoratori.
IL TALLONE D’ACHILLE DELL’EMENDAMENTO
Dove sta il rischio? Per individuare il contratto più applicato è indispensabile definire la platea: un contesto che è nelle mani dei soggetti stipulanti. Sarebbe quindi possibile non curare la piaga dei contratti pirata; se si scegliesse, infatti, un ambito d’applicazione molto ristretto, non sarebbe impossibile riscontrare che il contratto più applicato fosse stato negoziato da un sindacato non rappresentativo. In fondo è quanto avviene oggi nei casi della contrattazione ‘’pirata’’. È questo il tallone di Achille dell’emendamento.
È vero che la delega prevede il varo di misure contro questa spirale di dumping sociale. Ma è un po’ una “probatio diabolica” perché la legge non può imporre in regime di diritto comune una suddivisione preliminare e fissa per aree del mondo del lavoro. È vero che oggi esistono le categorie ciascuna con il suo contratto, ma l’origine di questa impostazione ha le sue radici nell’ordinamento corporativo quando la ripartizione delle categorie merceologiche era un atto amministrativo/istituzionale. È altrettanto vero che tale problema non viene superato – in punta di diritto – neppure nel modello che si affida alla individuazione, in via legislativa, della rappresentatività. Il che viene confermato dalla pratica sempre più diffusa dei contratti pirata.
Resta solo da constatare che, in pratica, sarebbe più semplice accertare (grazie ad una mole di dati ufficiali) il numero delle imprese e dei lavoratori a cui applicare un determinato contratto che non verificare la rappresentatività dei sindacati sulla base degli iscritti e dei voti; la stessa considerazione varrebbe anche per le associazioni delle imprese. Tutto ciò premesso va riconosciuto che la maggioranza ha battuto un colpo. E che le opposizioni l’hanno subito. Infatti, in Commissione, i capigruppo del “campo largo in itinere” hanno chiesto il ritiro dell’emendamento Rizzetto ( di FdI e presidente della XI Commissione nonché primo firmatario).
IN PARLAMENTO SI GIOCA ALLA MORRA
Le motivazioni fornite sono prive di fondamento sia politico che regolamentare. L’emendamento, secondo le opposizioni trasformerebbe una legge di iniziativa parlamentare in una delega al governo. Non lo vietano né il medico né il galateo; è frequente che la disciplina di materie complesse (come le pensioni, il fisco, la giustizia, la sicurezza e quant’altro) sia affidata ad una procedura di delegazione in base all’articolo 76 Cost. Poi, se si confrontano i testi, in entrambi si fa riferimento al trattamento economico complessivo previsto dalla contrattazione collettiva.
Nell’emendamento sostitutivo, manca il numeretto: quei 9 euro che fanno la differenza. Ma se il problema è solo questo, che senso ha chiedere alla maggioranza di ritirare l’emendamento e confrontarsi sul testo del AC 1275? È un invito a fornire un numero diverso? Ma in Parlamento non si gioca mica alla morra.