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Partecipare per competere nel nome di Marco Biagi

Partecipare per competere, attuare l’art.46 della Costituzione, nel nome di Marco Biagi. L'intervento di Salvatore Santangelo

 

Il neo segretario del Pd Enrico Letta ha voluto caratterizzare la sua elezione mettendo sul tavolo una serie di proposte; tra queste, la più concreta e rivoluzionaria è forse quella della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese, ipotesi prevista dal dettato costituzionale nel suo disatteso art.46 (“Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende”).

Una proposta rivoluzionaria, anche perché — a parte la posizione isolata e inascoltata di Pietro Ichino — la sua area politica di riferimento si era mostrata per lo più ostile a questo approccio alle relazioni industriali.

Le dichiarazioni di Letta hanno avuto anche il merito di restituire attenzione al tema, e subito si sono registrate autorevoli aperture; in tal senso si è infatti espresso Luigi Sbarra — il neo leader della Cisl (il cui statuto contiene il richiamo alla partecipazione) — che ha definito la partecipazione “la strada per alzare la produttività, la qualità dei prodotti e i salari, concorrere alle scelte del management, arginando l’antagonismo sterile”. E sull’argomento è uscita anche la Cgil.

Lo scorso anno — proprio sulle pagine di Start — in concomitanza con l’esplosione della pandemia, e percependo le incombenti minacce del contagio economico, già provammo a indicare questa traiettoria fra quelle che avrebbero dovuto accompagnare la ricostruzione della sfera sociale; a maggior ragione oggi l’allocazione delle ingenti risorse del Pnrr deve essere avvenire nel quadro di un grande disegno di democrazia economica, attuabile attraverso la responsabilizzazione di imprese e lavoratori.

Se volessimo assecondare una certa moda, il tentativo di descrivere il lavoro di fronte alla pandemia potrebbe essere condensato in alcuni slogan che ormai hanno saturato il dibattito pubblico — smart working, remote working, home job — termini che, senza un’adeguata riflessione, rischiano di rimanere vuote parole d’ordine che, tra l’altro, rendono sterili il dibattito e l’analisi.

Al contrario, dobbiamo renderci conto che proprio questo è il momento di immettere profondi elementi di novità nel dibattito pubblico sulle tematiche del lavoro e delle relazioni industriali, per disinnescare sul nascere la spirale conflittuale che rischia di esplodere sullo sfondo dell’emergenza generata dal Covid-19.

È ora di prendere atto che — superato il modello della concertazione degli anni Ottanta e Novanta — non è più rinviabile sciogliere il nodo della riforma strutturale del mondo del lavoro; riforma che deve essere affrontata sia considerando come centrale il valore della coesione sociale, sia riaffermando le esigenze della modernizzazione.

Proprio in questo percorso, e ancor più in questa fase così delicata, è necessario essere capaci di mantenere il clima di dialogo, attraverso un processo di coinvolgimento e di responsabilizzazione delle Regioni (arrestando le spinte centrifughe in atto), del sistema delle autonomie locali e di tutte le parti sociali, per portare a compimento al più presto e senza strappi questo necessario percorso di trasformazione.

Sono sempre più convinto, e la Germania lo dimostra, che usciremo (più forti) dalla crisi solo grazie a un nuovo modello di economia sociale di mercato in cui il mondo del lavoro sia ancorato al sistema sociale, e proprio in questo momento in cui il “lavoro” è più minacciato, l’obiettivo non deve essere solo quello di preservarlo, ma di “rilanciare”, per dare alle persone quella che, seguendo la grande lezione di Marco Biagi che il 19 marzo del 2002 cadeva sotto i colpi delle BR, sia “un’occupazione di qualità che concili quel grande aspetto della vita umana” che è il lavoro stesso, con altre realtà ugualmente importanti: la vita familiare e quella personale.

E senza questa chiara traiettoria, gli slogan che abbiamo evocano non farebbero altro che aumentare la dimensione della frammentazione, dello spaesamento e dell’alienazione sociale, che rappresentano il lato oscuro della cosiddetta geek economy.

Partendo da queste considerazioni, si possono avanzare alcune proposte di riforma del mondo del lavoro che introducano sì la flessibilità — anche dolorosa e contemperata alla congiuntura — ma in un contesto di condivisione comunitaria di scelte, rischi e risultati. La strada maestra per riuscire a conciliare queste due esigenze è senza dubbio quella della Partecipazione dei lavoratori alla gestione e all’utile dell’impresa (elemento cardine del già richiamato sistema tedesco, anche se in Italia — più che a quel modello basato su rigide procedure — dovremmo guardare, come consiglia Dario Di Vico, a un sistema «di premi e non di vincoli»), attuando finalmente le previsioni del già citato art. 46 della nostra Costituzione.

Call me Ishmael, “chiamami Ismaele”, è certamente uno degli incipit più famosi della letteratura mondiale; ma, proprio dalle battute iniziali, il capolavoro di Herman Melville — Moby Dick — è anche l’esemplificazione di un vero e proprio modello economico, oltre che di un programma politico: sul Pequod — la baleniera comandata dal capitano Achab — vige infatti un sistema che non discrimina, perché ciò che conta è il merito individuale, in grado di assegnare a ciascun lavoratore-capitalista una “pertinenza”, un salario, basato sulle competenze individuali e sui profitti, cosicché a tutti convenga che il capitale frutti il più possibile. E c’è una parte destinata anche alle vedove e agli orfani.

Renato Brunetta usa questa potente metafora nel suo volume La mia utopia, in cui propone questo inedito modello partecipativo, per affrontare e superare la crisi strutturale del nostro Paese: “si tratta di una grande occasione per ristrutturare, per soffermarsi a capire il mondo e le sue trasformazioni, e reinterpretare idee e teorie”; una riforma radicale che prevede il passaggio da una società a retribuzione fissa verso sistemi di partecipazione dei lavoratori ai rischi d’impresa. Solo così, realizzando un “socialismo liberale” dove il salario non sarà più una variabile fissa e incomprimibile, si potrà compiere la transizione da un mondo di salariati in perenne bilico sul nulla della disoccupazione al “pianeta della piena occupazione”.

Se c’è stato un sindacato che ha sempre tenuto alta la bandiera della Partecipazione, questo è stato l’Ugl, il cui attuale segretario generale — Francesco Paolo Capone — ha recentemente affermato: “Nel merito, dobbiamo avere la consapevolezza che questo paradigma investe due dimensioni. La prima ha a che fare con il dettato costituzionale e con il mai applicato art.46; la seconda con la profonda trasformazione delle dinamiche sindacali che porterebbe con sé. Infatti, introdurre la partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’imprese significa archiviare definitivamente la vecchia logica della contrapposizione e del conflitto, a favore della creazione di un fronte comune tra tutti coloro — lavoratori e imprenditori — che sono impegnati nella creazione di beni e servizi. Come Ugl, immaginiamo una doppia cornice di attuazione: una norma nazionale molto snella in grado di orientare la contrattazione di primo livello, con la consapevolezza che le “matrici di partecipazione” potranno avere la loro piena attuazione in quella di secondo livello. Questo perché, solo azienda per azienda, possiamo avere contezza dei parametri reali (come la produttività e perché no? dedizione aziendale) che possono permetterci di “metterla a terra””.

Da dove può partire questa rivoluzione?

Nel volume Dopo (curato da Alessandro Campi per Rubebttino) prospettavo — a causa del Covid, ma più in generale nel contesto della post globalizzazione — una nuova centralità dello Stato; in tal senso, proprio le aziende pubbliche (o quelle che stanno per tornare tali) — l’Enel, l’Eni, Finmeccanica, e in prospettiva anche Poste — possono diventare (anche per gestire in modo innovativo — come nei casi Ilva e Alitalia — le drammatiche vertenze in atto) veri e propri laboratori di partecipazione e contemporaneamente di selezione e formazione dei nuovi quadri manageriali e sindacali. Infatti, come ha affermato Maurizio Sacconi: “La partecipazione implica la convinzione che le imprese siano comunità di interessi (e, se possibile, di valori) e che il loro destino sia comune a tutti coloro che vi operano. Non parliamo poi delle pubbliche amministrazioni nelle quali il destino comune dovrebbe coincidere con il benessere collettivo ma che, proprio per questo, sembrano indifferenti a tutti”.

Una condizione non più accettabile.

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