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Mes

Obiettivi e rischi del Mes sui titoli di Stato. L’analisi di Polillo

Il Mes (Meccanismo europeo di stabilità), la rinegoziazione accelerata sul debito e gli effetti potenziali sui titoli di Stato. L'analisi di Gianfranco Polillo

La filosofia che ispira le nuove regole del Mes è abbastanza evidente, seppure nascosta in un tecnicismo giuridico di non facile lettura. Basti contare i rimandi legislativi contenuti nel testo, che non riguardano solo le altre norme dei vari Trattati. Ma una stratificazione che affonda le sue radici in oltre dieci anni di tentativi, più o meno riusciti, di dare al sistema una governance unitaria. Sarebbe comunque auspicabile che si potesse giungere ad un testo coordinato, per cercare di accendere un po’ di luce in un labirinto complicato.

Questa complessità spiega, almeno in parte, le divergenze di opinioni che si sono registrate in Italia circa la sua portata. C’è chi sostiene che nulla cambia. Altri che pongono l’accento su alcuni aspetti positivi indubbi: l’assicurazione contro l’eventuale default bancario. Altri ancora che gridano al golpe di un’Europa cattiva che vorrebbe strozzare la sovranità nazionale. Insomma un grande bailamme in cui non è facile orientarsi.

La ragione di tutto ciò è che, al di là di aspetti settoriali pure importanti e degni di nota, sfugge la logica più profonda del provvedimento. Che, almeno a nostro avviso, si può provare così a riassumere. Finché le cose marciano più o meno bene, l’interlocutore di ogni singolo Paese, resta la Commissione europea. Organo politico e pertanto sospetto per i teorici del rigore innanzitutto. Critiche abbastanza evidenti nei confronti sia di Jean Claude Junker che di Pierre Moscovici. Troppo teneri nell’accettare le ragioni degli altri.

Ma se le cose non dovessero andare, anche per ragioni indipendenti dalla volontà del singolo Paese (uno shock esterno), ecco allora che l’ago della bilancia è destinato a spostarsi. Entra in gioco il Mes, che affianca la Commissione europea nella diagnosi e cura successiva. Un rapporto anche complicato, vista la difficile convivenza tra il “presunto” rigore tecnico delle misure “convenzionali” ed il più alto gioco della politica. Alla fine, comunque, qualcuno deciderà. E non sarà certo a favore del malato. Al contrario, l’obiettivo principale sarà quello di stroncare, il più possibile, ogni pericolo di contagio a danno di altri Paesi.

C’è naturalmente una logica in tutto questo. Ma non si può non notare, come questa nouvelle vague contrasti fortemente con la politica innovativa della Bce, al tempo di Mario Draghi. Il ritorno a misure di carattere “convenzionali” rappresenta una sorta di restaurazione, rispetto ai tentativi, posti in essere, dalla navigazione “in acque incognite”. Con l’aggiunta di un pizzico di perfidia. Draghi aveva più volte invitato i Paesi che potevano permetterselo – soprattutto Olanda e Germania – ad avere politiche espansive, sul fronte della spesa pubblica. Perché mantenere forti attivi delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, quando il resto dell’economia entrava in una fase di ristagno? Nuove “prediche inutili” per dirla con Luigi Einaudi.

Ed oggi che la Bce ha una diversa governance, la rivincita è stata immediata. La leva della finanza pubblica non é più vista come uno strumento ausiliario del quantitative easing, ma come vincolo per imporre politiche fortemente restrittive, nel caso in cui si dovesse ricorrere alla solidarietà pelosa del Fondo salva Stati. Si potrebbe sostenere: peggio per chi è vissuto nella spensieratezza. Ma non è così semplice. Le politiche finora sperimentate, dopo la crisi del 2007, non solo non hanno risolto, ma aggravato, tutti i problemi.

In Francia, Spagna e Portogallo, il rapporto debito-Pil è aumentato ad un ritmo anche maggiore di quello italiano. Non ha fatto notizia, solo perché la base di partenza era molto minore. Su tutto ciò, come prescriveva l’articolo 16 del Trattato istitutivo del Fiscal compact, era necessaria una verifica ed una riflessione. Ma quest’impegno è stato semplicemente disatteso, per consentire di ripetere, in forma ancora più esasperata il mantra delle ricette convenzionali.

Ma se queste ultime non funzionano, allora non resta, in caso di crisi, che ricorrere alla rinegoziazione del debito. Con una procedura accelerata – il cosiddetto single limb – pensata nell’esclusivo interesse dei nuovi finanziatori. Senza considerare che quell’ipotesi rischia di trasformarsi in un potente strumento di speculazione, come avvenne agli inizi degli anni ‘90 con il crack del Sistema monetario europeo.

Problemi di lungo, anzi lunghissimo periodo, come sembrano ragionare molti esponenti dell’attuale Governo, prigionieri di una puro istinto di immediata sopravvivenza? Chi ragione così, ignora la logica del backdating. Il fatto cioè che il mercato si muove in anticipo rispetto ad avvenimenti futuri. Negli ultimi giorni gli spread sui titoli italiani si sono mossi, con un rinnovato nervosismo. Complice la complessa politica italiana. Ma non solo. Se il Trattato del Mes, dovesse essere varato, cambierebbero le garanzie offerte sui titoli emessi dopo il 2022.

Attualmente modificare le condizioni stabilite nel momento dell’emissione è possibile solo con l’accordo della maggioranza dei sottoscrittori. Da quella data, invece, questa garanzia sarà rimossa. Sennonché investire, oggi in Italia, in un titolo di stato, a dieci anni, comporta un rendimento annuo intorno all’1,5 per cento. Ma se, in prospettiva, aumenta il rischio, quanti saranno coloro ancora disposti a fare la puntata?

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