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Quota 102

Vi racconto i perché delle tensioni fra Di Maio, Tria e Boeri

Il commento di Gianfranco Polillo, già sottosegretario all’Economia, su torti e ragioni delle polemiche di queste ore che si concentrano in particolare sull’Inps presieduto da Tito Boeri Lungi da noi ogni idea di voler prendere posizione a favore dei diversi personaggi intervenuti nella rocambolesca vicenda della Relazione tecnica sul decreto “dignità”. In quella sorta di…

Lungi da noi ogni idea di voler prendere posizione a favore dei diversi personaggi intervenuti nella rocambolesca vicenda della Relazione tecnica sul decreto “dignità”.

In quella sorta di tempesta (quasi) perfetta che ha coinvolto vertici politici ed istituzionali, nessuno è in grado di lanciare la prima pietra. A partire da Maurizio Martina, che con un suo tweet più che bislacco ha contribuito ad infiammare l’atmosfera: “80mila posti di lavoro in meno in 10 anni. Sono quelli che prevede la relazione del decreto dignità” ha cinguettato, allegando una tabella della stessa Relazione. Peccato che i suoi conti fossero sbagliati. Gli esuberi ipotizzati sono invece soltanto pari ad 8 mila. Averli moltiplicati per 10 non è stata una bella idea.

Luigi Di Maio aveva, quindi, buon gioco nel controbattere. Per dimostrare la faziosità preconcetta da parte del segretario il principale partito d’opposizione. Si è invece lanciato in accuse a tutto campo contro presunti complottisti. La teoria che una “manina”, all’insaputa del suo ministero, aveva taroccato i conti per mettere in cattiva luce l’intero Movimento. Quella cifra di 8 mila esuberi – ha detto – non era contenuta nella Relazione tecnica inviata al Mef. Qualcuno l’ha aggiunta. Poi si è scoperto che era stato l’INPS a fornire le necessarie previsioni. Da ora in poi – ha aggiunto – chiederò ai carabinieri di seguire, passo passo, ogni documento che esce dal mio ministero.

Non lo faccia. Sarebbe una perdita di tempo. Piuttosto studi meglio le carte e le relative procedure contabili-parlamentari. Sostenere che il nuovo decreto non comporterà alcuna perdita di occupazione – questa la tesi sottesa alla mancanza di qualsiasi indicazione numerica – equivaleva a dire che lo stesso non avrà alcun onere a carico della finanza della pubblica. E che, pertanto, il decreto, contrariamente a quanto previsto dall’articolo 14, non aveva bisogno di alcuna copertura finanziaria. Quindi lo stesso articolo non andava inserito nel corpo del decreto. In questo caso, quest’ultimo sarebbe passato indenne attraverso i successivi filtri regolamentari, a partire dall’autorizzazione da parte del Presidente della Repubblica? Ne dubitiamo. Visto la presa di distanza da parte di tutte le organizzazioni imprenditoriali ed il malumore manifesto di tante imprese.

Quindi una qualche ipotesi di mancato rinnovo di contratti che il decreto rende più costosi, anche se giustificati da un punto di vista etico, andava formulata. Una perdita di circa 3,3 mila posti di lavoro nel primo anno, che a regime diventano 8 mila, era realistico da prevedere? E chi può dirlo? Si tratta di una semplice ipotesi, che può essere contraddetta dalle successive risultanti. Per questo, al comma 3 dell’articolo 14, era previsto un monitoraggio costante da parte dell’INPS proprio al fine di verificare se le coperture indicate dal decreto fossero più o meno sufficienti. Nel qual caso provvedere: riducendo gli importi previsti, a carico della finanza pubblica, nel caso in cui si fosse registrata una minore perdita di entrate (Irpef e contributi sociali) – quindi minori esuberi – o un onere maggiore. Nel caso contrario.

Non ci voleva, quindi, molto per replicare alle accuse di Martina. Bastava spiegare il carattere del tutto ipotetico della perdita di posti di lavori. Da cui nasceva, tuttavia, l’obbligo di natura costituzionale di indicare le prescritte coperture. E tutto sarebbe finito lì, senza tirare in ballo la lealtà di funzionari pubblici che fanno soltanto il loro mestiere. O rendere quasi plastica l’insofferenza nei confronti di un ministro, come quello dell’Economia, che ha già il difficile compito di contrastare l’azione dei burocrati di Bruxelles. Lo si è invece costretto ad un comunicato congiunto in cui si esprimono dubbi sulla fondatezza scientifica di quelle previsioni. Obiezione ovvia: mancando ogni precedente in materia. Che tuttavia non risolve il problema: quale può essere infatti una diversa previsione che abbia un maggior fondamento scientifico?

Naturalmente questo secondo atto della vicenda ha esacerbato gli animi. Tito Boeri, presidente dell’INPS, ha risposto per le rime. Andando forse anche oltre: “Siamo al negazionismo economico”. Il che detto nella polemica tra due distinti e stimati accademici non è proprio il massimo del fair play. Quindi, non contento, ha ribadito, con una lettera al giornale, che alcuni “virgolettati” contenuti in una sua intervista al Corriere della sera gli erano stati attribuiti impropriamente. Ottenendo la smentita immediata del giornalista che lo aveva intervistato. Insomma: una grande panna montata, nata da un travisamento iniziale, alimentato dalla polemica sbagliata del Segretario del PD. Ed alla quale si poteva rispondere in modo certamente più efficace.

Potremmo finirla qui, se l’episodio non fosse rilevatore di qualcosa di più profondo, che riguarda la crescente incomunicabilità tra politici e tecnici. I primi prigionieri di una sindrome da comunicazione, che li porta ad enfatizzare ogni possibile reazione, senza curarsi del pericolo di innescare, come in questo caso, una vera e propria reazione a catena, da cui nessuno è poi in grado di salvarsi. I secondi forse troppo chiusi nelle vecchie fortezze del passato ed incapaci di vedere lo smottamento sociale che si è aperto sotto i loro piedi. Fino a determinare quel corto circuito con l’establishment (di cui fanno parte) che costituisce una delle ragioni più profonde del trionfante populismo.

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