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Madame de Pompadour, la madrina del rococò

Il Bloc Notes di Michele Magno

Da Taine a Michelet, da Chateaubriand a Stendhal, da Hugo a Baudelaire, la Francia dell’Ottocento non ha mai smesso di interrogarsi sul prima e sul dopo la Rivoluzione del 1789. Ma è stato un ex rivoluzionario pentito, il conte Pierre-Louis de Roederer, a pubblicare nel 1835 il primo lavoro propriamente storico sulla società aristocratica di Antico Regime. Da allora letterati e studiosi hanno indagato incessantemente su quel mondo scomparso, privilegiando l’introspezione psicologica, l’aneddotica, la memorialistica. “Abbiamo cercato il passato ovunque il passato respira”, si vantavano Edmond e Jules de Goncourt. Teorici del realismo narrativo e nostalgici del secolo dei Lumi, i due fratelli hanno focalizzato l’attenzione sulla vita di corte e sul potere che le donne vi esercitavano in una raccolta di biografie, “Les maîtresses de Louis XV” (1860). L’editore Castelvecchi ha proposto per la prima volta ai lettori italiani quella di Madame de Pompadour (traduzione di A. Bresolin, 2014),la figura femminile forse più discussa della sua epoca, la cui folgorante ascesa è assurta a simbolo delle ambizioni politiche e delle aspirazioni sociali della borghesia.

A cominciare dal cognome, che sarà bersagliato dalla satira, la famiglia di Jeanne-Antoinette Poisson -detta Reinette- prestava facilmente il fianco alle maldicenze. Il padre era l’uomo di fiducia dei fratelli Pâris, banchieri della corona e fornitori dell’esercito. Condannato all’impiccagione per frode ai danni dell’amministrazione pubblica, si era rifugiato in Germania. La madre, la cui galanteria era proverbiale, quando Jeanne-Antoinette vede la luce (1721) aveva una relazione con Lenormant de Tournehem. Il ricchissimo appaltatore delle tasse si prende cura della piccola e la destina al nipote Charles-Guillaume d’Étiolles, nominandolo suo erede universale. Il 9 marzo 1741 Reinette diventa Madame d’Étiolles.I salotti parigini non tarderanno a contendersi la giovane sposa. Portamento elegante e educazione raffinata, era un modello di seduzione. I migliori maestri del tempo le avevano insegnato il canto e la danza, la recitazione e la retorica. Nessuna damigella sapeva montare meglio a cavallo. Non temeva rivali nelle gare di civetteria, di musica e di disegno. Da François Boucher e di Quentin de La Tour, i suoi pastellisti preferiti, viene ritratta con una carnagione del più splendente biancore e con un sorriso contagioso, occhi stupendi e mani perfette. Consapevole del suo irresistibile fascino, non aveva mai nascosto di puntare al cuore del re.

Nonostante la vigilanza maniacale della duchessa de Châteoroux, la favorita che aveva spinto Luigi XV (1710-1774) a impegnarsi nella guerra di Successione austriaca (1740-1748), Reinette cercava di farsi notare dal sovrano con ogni mezzo. Memorabili le sue passeggiate nella foresta di Sénart, dove si svolgevano le battute di caccia reali, vestita di azzurro in un calesse rosa, oppure vestita di rosa in un calesse azzurro. Ma l’occasione tanto attesa si presenterà il 28 febbraio 1745, durante il ballo in maschera organizzato all’Hôtel de Ville per il matrimonio del delfino Luigi Ferdinando con l’infanta di Spagna Maria Teresa. Con apparente noncuranza, congedandosi dagli astanti Madame d’Étiolles lascia cadere un fazzoletto. Il re lo raccoglie e lo lancia alla proprietaria, per poi passare la notte con lei. “Il fazzoletto è tratto”, sarà il sapido commento dei testimoni della scena. Sebbene tacciata apertamente di miscredenza dal precettore del Delfino, l’arcivescovo di Mirepoix, Reinette a luglio viene insignita del titolo di marchesa di Pompadour, e a settembre presentata a corte. Nel mese successivo prende possesso a Fontaineblau dell’appartamento occupato dalla duchessa di Châteauroux, che era stata ripudiata dal “Bien-Aimé”, come il popolo chiamava Luigi XV. La ragazza Poisson, appena separata legalmente da un attonito marito, faceva così il suo ingresso nel tempio della monarchia, dove avevano diritto di cittadinanza solo i più nobili tra i nobili. Come era fatale, Versailles avrebbe reagito all’affronto manifestando un odio viscerale nei confronti dell’intrusa.

Ben presto cominciano a circolare le “poissonades”, poesie sconce che malignavano sulle sue origini volgari e sulla non irreprensibile reputazione dei genitori. La marchesa non si perde d’animo, e mette in campo tutto il suo ingegno per neutralizzare i nemici più insidiosi: il conte di Maurepas e il conte d’Argenson, l’ispettore generale Philibert Orry e il duca di Richelieu, pronipote del grande cardinale. Attenta a non ferire l’orgoglio della regina, Maria Leszczynska, si circonda di uomini influenti e fedeli: il marchese di Puisieux, prestanome dei Pâris, i veri padroni del denaro francese; il cardinale di Tencin,profondo conoscitore dei segreti di Versailles; Monsieur de Saint-Séverin, abilissimo diplomatico. Ma la sua preoccupazione principale era quella di rallegrare e distrarre il re, di vincere la sua noia endemica, quel tedio esistenziale che per i Goncourt era la malattia dell’intera nazione, la “brezza mortale” che soffiava sul suo futuro. Insomma, la briosa, colta, curiosa Reinette appariva al sovrano come uno straordinario antidoto contro il veleno della depressione.

La nuova favorita sapeva rendere interessante una conversazione, presiedere con leggiadria alle cene per pochi intimi che si tenevano nei “petits appartements”, divertire il re, coinvolgerlo nella progettazione di quel “théâtre des cabinets” in cui si sarebbe esibita per un quadriennio alla testa di una compagnia di nobili dilettanti, nelle vesti di attrice, cantante e capocomico. Il 17 gennaio 1747 il teatro viene inaugurato con una pièce, “Tartuffe”, in cui Molière dileggiava l’ipocrisia dei moralisti. Tutta la compagnia -e tutti coloro che aspiravano ad entrarvi- erano alla mercé del suo imprevedibile impresario. Né Reinette si allarmava quando la ristrettisssima lista degli invitati inaspriva la gelosia degli esclusi; o quando il repertorio degli spettacoli -in cui l’adulterio e il piacere erano rappresentati impudicamente- suscitava scandalo negli ambienti ecclesiastici. Ciò che le premeva era incantare il re con la sua inventiva, quando allestiva uno spettacolo o quando calcava il palcoscenico. “Votre Solidité”, come la chiamava per celia Luigi XV, aveva fretta. Non vedeva l’ora di poter apostrofare i benpensanti di Versailles con il “noi”  del comando regio.

Il primo a farne le spese sarà Maurepras. Il decano dei ministri si considerava intoccabile, ma il gusto della sfida e l’eccesso di sicurezza lo avevano indotto a compiere un passo falso. Subito dopo uno scontro con la Pompadour, che lo sospettava di essere l’autore delle “poissonades”, una nuova quartina infamante alludeva ai “candidi fiori” che la favorita spargeva intorno a sé in seguito a un aborto. La reazione del sovrano non si fa attendere: il responsabile della Real Casa è costretto a dare le dimissioni e a ritirarsi nelle sue terre. La defenestrazione di Maurepras era l’inconfutabile prova del potere acquisito dalla Pompadour, di cui si gioveranno subito i suoi cari. La figlia Alexandrine viene allevata come una principessa nel convento dell’Assunzione (morirà prematuramente nel 1754, per un’indigestione di latte d’asina). Il padre viene sottratto alla giustizia e imboscato sotto la signoria di Marigny. Il fratello Abel diventa marchese di Vandières e, una volta cacciato l’integerrimo controllore delle finanze Orry, riceve il prestigioso incarico di direttore dei “Bâtiments du Roi”, una sorta di ministero delle Belle Arti del tempo.

Mentre distribuiva questi benefici alla sua famiglia, la marchesa accumulava un patrimonio personale ingentissimo. Per i Goncourt, misogini incalliti, era un’arrivista avida e priva di scrupoli. Coltivava una passione smodata per i palazzi, i quadri, le sculture, i mobili, le stoffe, gli oggetti preziosi. Passione che le aveva attirato l’accusa di dilapidare il Tesoro reale, proprio in un momento in cui il governo stava predisponendo un piano di risanamento delle finanze. Ma era anche la madrina del rococò, che aveva dato il suo nome “alla carrozza, al caminetto, al sofà, al letto, alla sedia, alla scatola, al ventaglio, fino all’astuccio e allo stuzzicadenti, […] fino a una spola per fare un ricamo chiamato ‘frivolezza’. Tutto il bello e tutto il grazioso, tutte le ricercatezze del secolo si raccomandano a lei come a una patrona del buon gusto e dello stile”. Mecenate dell’arte e dell’artigianato di lusso, sarà lei a prodigarsi per consentire alla manifattura di Vincennes di competere con le porcellane di Meissen. Trasferita a Sèvres, la fabbrica metterà a punto colori -tra cui il celebre “rosa Pompadour”- e motivi decorativi ammirati in ogni angolo d’Europa.

Nel 1750 Reinette cessa di essere l’amante del re; erbe orientali e afrodisiaci di ogni tipo si erano rivelati impotenti di fronte alla sua frigidità e ai suoi disturbi ginecologici. Aveva pertanto convenuto con Luigi XV di porre fine ai loro rapporti sessuali. Ma proprio tale scelta avrebbe rinsaldato il legame tra i due. Annunciando alla corte la fine del suo concubinato, Luigi XV aveva rivolto un pubblico attestato di stima alla favorita, conferendole un privilegio inedito quanto eccezionale: lo status ufficioso di consigliere e ministro. In realtà, la figura della Pompadour subisce una doppia metamorfosi. Infatti, da quel momento diventa anche la complice più affidabile della dissolutezza del sovrano. Nel 1753 il conte d’Argenson commentava così il prossenitismo della marchesa: “Questa autentica commediante si considera la sovrintendente dei piaceri del monarca, e pretende che lo Stato le sia riconoscente del fatto che provveda a novità di ogni genere per andare incontro al suo gusto bilioso, malinconico e pigro”. L’ideatore degli Champs-Élysées si riferiva al traffico delle avvenenti damigelle che si avvicendavano in una casetta del Parco dei Cervi. Le giovinette, che spesso ignoravano il rango di chi le visitava, quando rimanevano incinte venivano portate in una abitazione lontana da sguardi indiscreti, dove partorivano clandestinamente. Poi erano indennizzate con una dote, a condizione che si sposassero in provincia. Malgrado tutte le precauzioni adottate, l’alcova del Parco dei Cervi diventerà in breve tempo il simbolo della turpitudine di un re cristianissimo e di una borghesuccia senza Dio, scatenando l’indignazione dei sudditi per il mercimonio che si consumava nel “trebuchet” (trappola per uccellini), ovvero la stanza per gli incontri con le ragazze.

Nonostante la sicurezza che ostentava, la marchesa si rendeva conto che per salvaguardare il proprio potere e la propria immagine aveva bisogno del perdono della Chiesa. Nel gennaio del 1756, ottenuta la carica di dama di palazzo della regina -che giustificava la sua permanenza nella reggia- la marchesa proclamava il suo “ingresso nella devozione”. Sotto la guida spirituale di  Dominique de Sacy, comincia ad andare assiduamente a messa, a vestirsi più sobriamente, a fare opere di carità; e perfino a tentare una riconciliazione con Monsieur d’Étiolles. Ma il clima religioso dell’epoca non era incline all’indulgenza per l’amica e la protettrice di Voltaire e Rousseau, Crébillon e Buffon, Montesquieu e Marmontel, d’Alambert e Diderot (Benedetta Craveri ne ha fatto una splendida ricostruzione nel libro “Amanti e regine”, che integra i passaggi più lacunosi della biografia dei Goncourt). Rimproverati di lassismo da giansenisti e Parlamento, i gesuiti si erano attestati su una linea intransigente: entrambi gli ex adulteri dovevano compiere un gesto di riparazione pubblico al loro peccato mortale. Nondimeno, se il re voleva l’assoluzione, era necessario che Madame de Pompadour lasciasse Versailles.

Il 5 gennaio 1757 Luigi XV, mentre si accingeva a salire in carrozza per festeggiare l’Epifania al Trianon, viene pugnalato da Robert-François Damiens, un fanatico che si era intrufolato tra il suo seguito. Credendosi in pericolo di vita, il re si pente con i familiari, passa le consegne al Delfino e si isola col suo confessore, padre Desmarets. Non un biglietto né una parola per una angosciatissima Pompadour, che viene confortata dal “maestro”, come i discepoli chiamavano François Quesnay. Per la discrezione mostrata durante un attacco di epilessia della contessa d’Éstrades, il fondatore della scuola fisiocratica era entrato nelle simpatie della marchesa, per poi diventare medico consulente del re. Reinette si sente perduta quando una sua creatura, il ministro della Marina Machault d’Arnouville, su istigazione del Delfino le intima di fare i bagagli. Mentre si apprestava a eseguire l’ordine, viene convinta da Madame de Mirepoix -un’intima dei “petits appartements”- a non abbandonare la partita. Una felice intuizione, perché una settimana dopo Luigi XV riprenderà a farle visita come se niente fosse accaduto.

La vendetta della Pompadour è implacabile: sia Machault sia il ministro della Guerra d’Argenson, che le aveva mancato di rispetto, vengono licenziati. Il re sacrificava così al risentimento della favorita due dei suoi collaboratori più esperti, e questo proprio mentre era impegnato in un conflitto europeo i cui esiti si sarebbero rivelati disastrosi per il prestigio della corona. Schierata al fianco dell’Austria e della Russia contro l’Inghilterra e la Prussia, dopo la guerra dei Sette anni (1756-1763) la Francia infatti non sarà più la prima potenza del Vecchio continente, e perderà quasi tutto il suo impero coloniale. Un bilancio disastroso, la cui responsabilità è in larga misura ascrivibile alle trame e all’impreparazione politica della “belle philosophe”. Sono due suoi protetti, il conte di Stainville, poi duca di Choiseul, e l’abate Bernis (“il suo piccione con le zampe pennute”) che trattano segretamente con Vienna. “È a lei che dobbiamo rivolgerci, perché vuole essere stimata e in effetti lo merita”, scriveva l’ambasciatore Starhemberg al conte di Kaunitz, cancelliere e ministro degli esteri di Maria Teresa.

L’appoggio entusiastico della marchesa al “rovesciamento delle alleanze”, sollecitato dall’imperatrice asburgica, nasceva dall’idea di una grande unione cattolica, in grado di controbilanciare il potere crescente del partito protestante in Europa. Ottiene così da Luigi XV l’invio oltre il Reno di tre armate, tra cui quella del maresciallo d’Éstrées che contava centomila uomini. Dopo la battaglia di Rossbach (5 novembre 1757), in cui l’esercito prussiano aveva sbaragliato le truppe franco-austriache del principe di Soubise e del principe di Hilburghausen, la Pompadour scrive al cancelliere austriaco: “Odio il vincitore più di quanto abbia mai fatto[…] polverizziamo l’Attila del Nord, e mi vedrete così contenta come adesso sono di cattivo umore”. L’Attila del Nord era Federico II. Accecata dall’ira contro il “re filosofo” che la chiamava “Sottana IV”, la marchesa non faceva che accumulare errori. In preda a un attivismo frenetico, si immischiava in tutto e esprimeva pareri su tutto, fino a sfiorare il grottesco: aveva infatti il vezzo di incollare dei nei finti su carta intestata per mimare le strategie militari da adottare sul campo di battaglia. Sia pure al prezzo di enormi sacrifici, sarà tuttavia un suo fedele  -il duca di Choiseul, succeduto a Bernis nel dicembre del 1758- a mettere fine alla guerra con il Trattato di Parigi (1763), e a conservare alla Francia un ruolo di rilievo sullo scacchiere europeo.

Negli ultimi anni della sua vita, quando appariva ancora come la vera regina di Francia, Reinette dovrà guardarsi da una donna che le stava rubando l’affetto di Luigi XV. Era la figlia di un avvocato di Grenoble, Mademoiselle Coupier de Romans. Perfino Giacomo Casanova era stato colpito dalla sua avvenenza. Arrogante e spudorata, ostentava in pubblico l’unico degli otto figli naturali che Luigi XV aveva accettato di dichiarare come proprio. Un figlio potenzialmente più pericoloso del Delfino, che la marchesa era riuscita a ridicolizzare in presenza del re per il suo bigottismo, la sua abitudine di recitare “mattutini e laudi” come un prelato di campagna. Ma di tutti gli affanni che la tormentavano, il più assillante era il timore di non avere nella storia il posto che le spettava. Non bisogna farsi trarre in inganno, avvertono i Goncourt, da quella “sfrontatezza con cui -per stordire Luigi XV- bestemmiava la posterità: Dopo di noi, il diluvio!”. Aveva sognato l’istante in cui Federico II si sarebbe inginocchiato davanti a lei per implorarne la grazia. Aveva creduto di poter piantare la bandiera di Louis le Bourbon ad Hannover, nell’Assia, in Sassonia. Invece, dopo quello di Rossbach, i rovesci di Minden, Warbourg, Filhingshausen, che esponevano la riva francese del Reno al passaggio dello straniero. Invece, con un milione di soldati stremati, l’agricoltura che chiedeva braccia, il commercio distrutto, le finanze esauste. “Sono in preda a una disperazione così violenta -confessava in una lettera al duca d’Aiguillon- perché niente mi affligge più di un’umiliazione eccessiva […]. Cos’è diventata la nostra nazione? Gli enciclopedisti l’hanno cambiata [ma] bisogna rinunciare a ogni gloria”.

Sarà la morte a liberarla da questi tormenti. Stanca e invecchiata, gravemente  malata, Madame de Pompadour si spegne a Versailles il 15 aprile 1764. Poco prima di spirare, aveva fatto giurare a Georges-Louis Lecrerc de Buffon, il grande naturalista, che si sarebbe occupato dei suoi tre amatissimi animali: un cane, una scimmietta e un pappagallo. Subito dopo, coperto da un semplice lenzuolo, il suo corpo devastato dal vaiolo lasciava di notte e senza onori la reggia dove aveva vissuto per quasi vent’anni. Un giorno Luigi XV avrebbe detto di non averla mai amata. E un giorno uno degli intellettuali che più l’avevano adulata, Denis Diderot, avrebbe scritto: “Ebbene, cos’è rimasto di quella donna che ci ha esaurito uomini e denaro, che ci ha lasciati senza onore e senza energia, che ha sconvolto il sistema politico europeo? Il Trattato di Versailles che durerà quanto potrà, “l’Amour” di Bourchardon che ammireremo per sempre, alcune pietre incise di Gay che stupiranno gli antiquari futuri, un bel quadretto di van Loo che a volte verrà osservato, e un pizzico di cenere”. Quel pizzico di cenere riposa nell’abbazia di Saint Denis, alla periferia di Parigi.

 

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