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Bambini

Fondi europei per i minori: idee e proposte concrete

Il post di Alessandra Servidori               

 

Dopo il tragico suicidio della piccola palermitana forse per una sfida su TikTok, è intervenuta Carla Garlatti, l’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza, esigendo l’esistenza di norme che impediscano l’iscrizione dei bambini ai social da soli.

Secondo Garlatti i bambini con meno di 14 anni non solo non devono iscriversi da soli ai social network, ma è urgente che sia data attuazione alle misure previste dalla direttiva europea sui servizi dei media audiovisivi.

I gestori delle piattaforme devono essere costretti ad accertare seriamente l’età degli utenti: non basta un’autodichiarazione o un documento.

Vanno attivati sistemi che la tecnologia consente già di utilizzare. Inoltre devono essere resi operativi meccanismi efficaci di blocco dei contenuti non appropriati. Vero è che la rete è un mezzo prezioso per esprimersi, informarsi, apprendere e giocare. È anche uno spazio che figli e genitori possono condividere: per questo è importante che madri e padri conoscano il mondo online e che non tengano in rete comportamenti che trasmettono ai ragazzi esempi negativi.

In Italia si è attivata la “Consulta dei diritti e dei doveri del bambino e dell’adolescente digitale”, come previsto dalla legge 92 del 2019 che ha introdotto l’educazione digitale come branca dell’educazione civica, ma non esiste una documentazione in rete da poter monitorare.

I bambini sono particolarmente colpiti dalla pandemia e la Commissione europea — già all’interno del Quadro Strategico per la cooperazione europea nel settore dell’istruzione e della formazione per il 2020/26 — riconosce alla filiera dell’istruzione un ruolo centrale nella promozione di programmi educativi specifici per dotare i bambini, sin dai primissimi anni di vita, delle competenze necessarie per affrontare e superare gli ostacoli nel loro percorso di vita, sottolineando la necessità di fornire un maggior supporto ai bambini più vulnerabili.

Anche il Fondo Next Generation EU mette, sin dal nome, al centro le nuove generazioni e pone tra gli obiettivi il rafforzamento dell’Istruzione e la parità di genere. Una rete autorevole di Associazioni e alleanze per l’infanzia ha a livello europeo prodotto una analisi interessante che servirà sicuramente per affrontare la stagione della ricostruzione nel nostro Paese.

Gli investimenti nei servizi educativi soprattutto per la prima infanzia, nelle scuole dell’infanzia e nel sostegno alle competenze dei genitori vanno considerati a pieno titolo come investimenti nell’istruzione, perché sono la base solida su cui bambine e bambini trovano garantita l’opportunità di sviluppare appieno le proprie capacità, contrastando le disuguaglianze e la povertà educativa. Per questo sono strategici sia dal punto di vista sociale che economico.

Un’ampia letteratura internazionale mostra, infatti, che l’accesso ai servizi educativi e di istruzione di qualità fin dai primi anni di vita e di sostegni ai genitori comporta ricadute positive su tre dimensioni: il benessere e le competenze dei bambini, con effetti di lungo periodo su tutto il percorso di crescita personale; il benessere delle loro famiglie, favorendo sia le scelte di fecondità per chi lavora, sia la partecipazione lavorativa per chi ha figli (attualmente bassa soprattutto per le donne), con ricadute positive di contenimento della povertà infantile; la coesione sociale e lo sviluppo economico delle comunità e dell’intera società, rafforzando le conoscenze e le competenze delle nuove generazioni, con conseguente riduzione di vulnerabilità (con associati costi sociali) e rafforzamento delle prospettive di occupazione (ovvero di contributo positivo alla crescita del Paese).

La situazione italiana è particolarmente carente per quanto riguarda i servizi educativi per i bambini sotto i tre anni, stante che il livello di copertura, tra nidi pubblici, convenzionati e totalmente privati raggiunge solo il 25% (di cui solo poco più della metà a titolarità pubblica). Vi sono inoltre forti disomogeneità territoriali, con le regioni meridionali (ove più alti sono i tassi di povertà minorile e quelli di elusione scolastica) che presentano tassi di copertura molto più bassi.

Accanto alle disuguaglianze territoriali vi sono quelle legate al reddito e all’istruzione dei genitori: a non frequentare il nido sono soprattutto i figli/e di genitori a basso reddito e a bassa istruzione, in famiglie in cui vi è un solo lavoratore. Sono di fatto esclusi, quindi, i bambini che più trarrebbero giovamento, come mostrano le ricerche internazionali, da esperienze educative extrafamiliari di qualità.

Non sempre poi, come dimostrano autorevoli indagini, la mancata frequenza è determinata dall’opinione che non sia opportuno far frequentare un nido ad un bambino piccolo. Piuttosto conta la carenza di posti nei servizi pubblici, o finanziati dal pubblico, dove i costi di iscrizione tengono conto del reddito familiare e perciò sarebbero accessibili anche a famiglie in condizioni modeste, oltre che l’elevato costo dei nidi privati. Ciò spiega anche il fenomeno dei bambini “anticipatari”, che vengono iscritti alla scuola dell’infanzia prima di compiere i tre anni, un fenomeno diffuso soprattutto nel mezzogiorno.

Migliore è la situazione per quanto riguarda la scuola per l’infanzia, che presenta tassi di copertura e frequenza molto alti, anche se in diminuzione negli ultimi anni. Qui i problemi che emergono  sono due. Il primo riguarda la diffusione di scuole dell’infanzia a tempo parziale (e senza mensa) al Sud e, quindi, di nuovo, una offerta educativa più ridotta in queste regioni. Il secondo riguarda la mancata frequenza da parte di una quota rilevante di bambini stranieri.

A partire dalla necessità che vengano definiti Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP) anche nel campo dell’educazione per i bambini in età 0-6 anni, in modo tale da fissare e garantire l’esigibilità del diritto di ogni bambina e bambino a beneficiare di percorsi educativi e di istruzione da zero a sei anni, al di là di dove si nasce e si cresce, si propone di arrivare nell’arco di un triennio a: a) una copertura pubblica di almeno il 33% dei bambini sotto i tre anni in ciascuna regione, tramite servizi educativi, gestiti da Pubbliche Amministrazioni o da altri Enti autorizzati al funzionamento e finanziati unicamente dalla fiscalità generale, assicurando la gratuità nell’accesso, da raggiungere entro tre anni, con l’obiettivo di assicurare a tutti i bambini il diritto soggettivo all’accesso al nido entro 10 anni; b) una copertura della scuola dell’infanzia del 95% in tutte le regioni per i bambini in età 3-5 anni, assicurando il tempo pieno e la parziale gratuità nell’accesso anche per quello che riguarda i costi delle mense scolastiche, così come suggerito anche dall’Autorità Garante per l’Infanzia, e favorendo l’integrazione dei bambini di cittadinanza non italiana; c) mantenimento, e in alcuni contesti innalzamento, delle professionalità richieste a chi lavora in questo campo e di condizioni di lavoro adeguate (a partire dai salari e contratti di lavoro e dall’organizzazione dello stesso); d) piena attuazione dei Poli per l’infanzia, previsti dal Dlg. 65/2017 come ambiti di coordinamento di tutti i servizi educativi per la fascia 0-6, collocando al loro interno anche i Centri per bambini e famiglie.

I costi stimati sono molto attendibili. Per arrivare ad una copertura pubblica del 33% a livello di ciascuna regione, aggiungendo altri 298.848 posti ai 159.849 oggi disponibili, si può stimare — sulla base dei costi medi effettivi sostenuti dalle amministrazioni per la creazione di un posto nido (16.000 euro) — un costo aggiuntivo di circa 4,8 miliardi di euro in conto capitale, una cifra largamente superiore a quella per ora apparsa nelle proposte sull’uso del Fondo Next generation EU.

A questi, inoltre, va aggiunta una cifra stimata in circa 2,7 miliardi di spesa corrente annua (stante che la spesa media per posto è di 9,195 euro). Per arrivare, poi, ad una effettiva gratuità del servizio, come avviene per la scuola per l’infanzia pubblica, paritaria o convenzionata, occorre aggiungere circa 1 miliardo e 325 milioni di euro l’anno equivalenti alla spesa attuale complessiva per utente oggi a carico delle famiglie e dei Comuni.

Il costo stimato per arrivare ad una piena generalizzazione del tempo pieno nella scuola per l’infanzia è di circa 120 milioni di euro l’anno. Questa cifra andrà, inoltre, incrementata per garantire la parziale gratuità della mensa. Si tratta indubbiamente di una spesa di grande rilevanza. Va tuttavia considerata un vero e proprio investimento, oltre che per la valenza indiscutibile in termini di sviluppo e crescita di un Paese che decide di garantire percorsi educativi e di istruzione fin dai primi anni di vita, anche per le ricadute positive che avrebbe in termini di creazione di posti di lavoro qualificati nel settore dell’educazione e dell’istruzione.

Il rapporto, infatti, stima che l’aumento dei posti nido avrebbe un impatto diretto, in termini di nuovi posti di lavoro per educatori, di circa 42.600 lavoratori a tempo pieno. Tale cifra potrebbe ulteriormente aumentare a 60.000, se si considerasse non un rapporto educatore/bambino di 1 a 7, ma 1 a 5, preferibile in termini di qualità dell’interazione.

L’impatto occupazionale dell’estensione del tempo pieno sarebbe più limitato, perché coinvolge un numero più ridotto di bambini. Viene stimato in un incremento equivalente a 4751 insegnanti a tempo pieno. Per quanto riguarda il finanziamento, i Fondi del Next Generation UE offrono l’opportunità unica di poter sostenere le spese degli investimenti infrastrutturali, quantificati — per l’obiettivo minimo di breve periodo del 33% di copertura di posti disponibili in nidi pubblici o a finanziamento pubblico in ogni regione —, in 4,8 miliardi, lasciando alla fiscalità generale l’onere della spesa corrente.

Anche i Fondi strutturali per le politiche di coesione 2021-2027, in una logica aggiuntiva e integrativa rispetto alle risorse ordinarie, possono contribuire al finanziamento del Sistema integrato 0-6, anche considerando che una quota del FSE+ di circa il 5% sarà dedicata alla Child Guarantee prevista in sede europea. In particolare occorre che l’eventuale nuovo Programma nazionale sui temi dell’istruzione e della formazione, a gestione del Ministero dell’Istruzione e finanziato con i fondi FSE e FESR, preveda un investimento dedicato al Sistema.

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