Skip to content

Bambini Infanzia

Che i bambini tornino a essere bambini

L’abbassamento del livello di accesso e fruizione al mondo dei social ha determinato una dirompente precocità di esperienze sul piano comportamentale, sotto l’aspetto individuale e sociale, ma così viene a mancare una fascia temporale essenziale per la formazione e la costruzione della propria identità. L’intervento di Francesco Provinciali, già dirigente ispettivo Miur e Ministero della Pubblica istruzione

 

Il fenomeno della adultizzazione precoce oltre ad essere la causa di molte distonie comportamentali la cui soglia di accesso si abbassa sempre di più quasi a lambire la stessa infanzia, finisce per comprimere, ridurre, e svuotare della loro spontaneità le prime esperienze di formazione e socializzazione dei bambini e degli adolescenti.

La famiglia cd. “patriarcale” di un tempo (che non abbiamo motivo di rimpiangere ma che aveva le sue regole) induceva ad un prolungamento di quella fascia di età che i pedagogisti chiamano “statu pupillari”: una condizione di graduale emancipazione pilotata dagli adulti, genitori o educatori che fossero. Da questo punto di vista l’abbassamento del livello di accesso e fruizione al mondo dei social ha determinato una dirompente precocità di esperienze sul piano comportamentale, sotto l’aspetto individuale e sociale.

In linea di massima ogni generazione guardando a ritroso e ricordando i giochi, i passatempi, le frequentazioni amicali, le libertà concesse e quelle proibite dei primi dieci-dodici anni della propria vita, coglie sempre una differenza comparandoli con il presente e spesso prevale una ineffabile nostalgia. I segreti e le fantasie di un tempo conservavano una certa innocenza, oltre le apparenti malizie: ‘dire, fare, baciare, lettera e testamento’ erano approcci di conoscenza della realtà e delle relazioni amicali che esprimevano una non ingannevole trasgressione.

Tuttavia la deriva del presente sta velocemente assumendo i tratti di una esponenziale anticipazione: in questo l’uso delle tecnologie, la TV, il libero accesso all’universo sconosciuto del web, senza limiti, senza controlli, senza facoltà di discernimento e criteri etici a fronte di un potenziale di offerta praticamente illimitato non considerano certo l’età come discrimine della loro fruizione.

Se l’infanzia delle favole, del gioco libero e creativo, della manualità come forma di conoscenza materica degli oggetti e della realtà e dello scorrere gratuito del tempo sparisce e l’adolescenza scompare inghiottita nello schermo di uno smartphone ecco che viene a mancare una fascia temporale essenziale per la formazione e la costruzione della propria identità. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti e costituiscono un fondato motivo di preoccupazione in famiglia e a scuola, laddove ve ne sia consapevolezza.

Di fatto questa concezione meramente strumentale, consumistica e commerciale dei primi anni di vita produce una serie di cascami e conseguenze negative che sovraespongono bambini e ragazzini ai pericoli del fuori controllo. Trovo che l’omologazione imposta dai media, la digitazione compulsiva, la ripetitività, il transfert degli accessi al “tutto”, gli azzardi in rete, la molteplicità dei canali spesso disinformativi e diseducativi sono la fase prodromica di azioni dissociative: la stessa esplosione di manifestazione di aggressività e violenza tra pari, l’agire in gruppo socializzando una concezione distruttiva della realtà e lesiva dei valori di rispetto della dignità umana producono una sorta di montante emulazione nel superarsi verso il peggio.

Bullismo, cyberbullismo, revenge porn, violenze di genere nascono da qui. Forse il termine “baby gang” è inappropriato ed eccessivo (tuttavia suscita l’attenzione dei tribunali minorili per l’emergenza dei casi, pur nell’ottica di una ‘giustizia riparativa’) perché paradossalmente la violenza agìta è l’emulazione dei cattivi esempi o delle omissioni degli adulti.

Esprime invece – sembra inverosimile – una debolezza nel controllo delle pulsioni proprio a motivo di quella deriva anticipatoria e di adultizzazione precoce che ha di fatto bypassato l’infanzia e la prima adolescenza. Ciò produce un fenomeno di disconnessione dalla realtà che è la speculare conseguenza dell’iperconnessione tecnologica: connessi e digitalizzati nel mondo virtuale e disconnessi e fondamentalmente soli e abbandonati in quello reale.

Sotto questo profilo di considerazione non condivido affatto la scelta della scuola di rendersi strutturalmente “ipertecnologica” a scapito di un decadimento delle relazioni empatiche e affettive. Paradossalmente l’autonomia scolastica si è ammalata di ipertrofia burocratica e ha imposto l’uso delle tecnologie con risultati scadenti sotto il profilo formativo: nella scuola primaria i tablet sostituiscono il corsivo, nelle superiori vengono trascurati i grandi capolavori della letteratura per far posto agli esperimenti di intelligenza artificiale, ai test, agli web-quest, alle flipped class room e alla gamification.

Già nel 2020 in una intervista che realizzai con lui, Umberto Galimberti puntava senza indugi l’indice su questa intrapresa fuorviante: “Anche la scuola ha perso i suoi scopi fondamentali: è diventata luogo di apprendimento-istruzione più che di educazione: i contenuti intellettuali – come ci insegna Platone – passano attraverso categorie emotive. Qui passa la differenza tra istruzione ed educazione, i sentimenti si acquisiscono come le nozioni, si imparano: il luogo privilegiato per insegnarli è la letteratura che ci dà i paradigmi per collocare i nostri stati d’animo – l’amore, il dolore, la noia, l’amicizia ecc. – in una narrazione che ho acquisito leggendo. I ragazzi, interrogati sul perché stanno male non sanno nemmeno nominare il luogo del loro disagio e qui subentra la disperazione”.

Concetti ribaditi durante l’evento “G-talk: Riflessioni: famiglia e figli nell’era digitale” ripreso in un servizio di Orizzonte Scuola del 7 giugno 2024: “La scuola italiana istruisce ma non educa. Stiamo assistendo alla morte dell’homo sapiens. Bisogna riempire le scuole di libri, non di computer”. Ciò che manca alla scuola di oggi non è dunque qualche aggiuntivo armamentario digitale ma una buona, efficace e motivante educazione sentimentale. Ai giovani alunni che essa riceve, spesso afasici e incerti nel comunicare, carenti di relazioni affettive primarie e amicali non si possono offrire solo tablet, algoritmi, cloud computing e STEM: sovente essi provengono da nuclei familiari inadeguati e necessiterebbero di alfabetizzazione e di affinamento dei sentimenti.

Se i contesti esistenziali umani, fin dall’infanzia, sono forgiati e regolamentati dalle tecnologie esse finiscono per diventare preponderanti, specie se famiglia e scuola non sono in grado di preparare anticorpi e alternative centrate sui valori. Ricordo che – sempre nel 2020 – Vittorino Andreoli mi disse che “il comportamento dipende anche dalla modalità con cui noi abbiamo vissuto il nostro passato e in particolare da come abbiamo vissuto l’infanzia, importantissimi sono i primi tre anni di vita”… ”La più grande terapia è il legame, è l’amore”… Allora io penso che la scuola debba cambiare per aiutare i ragazzi a vivere in un mondo difficile e la scuola non deve diventare parte della difficoltà del mondo.

Riannodando le fila di questa riflessione non posso esimermi dal citare quanto detto da Paolo Crepet al Riformista e ripreso da Tecnica della Scuola del 22/11/2023: “Non c’è nessuna voglia di ascoltare i figli, non ci interessa, è tutto un delegare, la famiglia delega alla scuola, la scuola delega non si sa a chi, il ministero pensa di risolvere non si sa come. Se vogliamo veramente cambiare le cose, come dicono i rivoluzionari da salotto, cominciamo dai bambini non a diciotto anni quando ormai è troppo tardi. Finanziamo le scuole dell’infanzia, iniziamo a togliere tutta questa tecnologia dalle scuole per i piccoli, le mie parole sono rivoluzionarie perché io dico una cosa che nessuno vuol fare, che nessuno vuole sentire, perché quando si toccano degli interessi nessuno vuole sentire. La Svezia ha detto di sì a questa proposta di diminuire la tecnologia nelle scuole, il ministero italico invece ha detto che ci deve pensare”.

Famiglia e scuola sono definite “istituzioni in crisi” perché hanno perduto da tempo il senso dei loro compiti formativi della singola persona e nel contesto sociale in cui agiscono. Bisogna ripartire dai fondamentali, restituendo all’infanzia e all’adolescenza creatività, motivazioni, interessi, gioia di vivere e di crescere. Ciò può avvenire solo se si rispettano i diritti della loro età. A cominciare dal gioco: perché i nostri bambini non giocano più ma emulano gli adulti? E poi responsabilizzando i genitori: famiglia è chi ti chiama, chi ti cerca, chi ti ascolta, chi ti sostiene. Per finire con la scuola: trovo che l’urgenza più avvertita e pressante sia di valorizzare la libertà di insegnamento costituzionalmente garantita ma oggi prigioniera di un modello organizzativo iperburocratico e irregimentato. Non sempre autonomia fa rima con democrazia.

Torna su