Dopo 5 giorni dall’intervista di Paolo Gentiloni al Corriere della Sera, da cui usciva minimizzato il ruolo di Giuseppe Conte come negoziatore del Recovery Fund, ieri sul Fatto Quotidiano abbiamo una difesa più articolata. Sapientemente ammantata dall’autorevolezza di “fonti diplomatiche e tecniche che hanno seguito molto da vicino quel dossier, ma che non vogliono essere citate”.
Nella giornata di mercoledì Conte si era speso generosamente sulle pagine dello stesso Corriere e del Sole 24 Ore. I toni erano stati abbastanza roventi, spaziando da “vigliacco attacco” in combo con “attacchi proditori”, per finire con un più felpato “attacco completamento sconclusionato”. Sempre mercoledì ci aveva pensato il suo fido Stefano Patuanelli sul Fatto Quotidiano a bollare le parole di Gentiloni come “falsità che fanno male al Paese e aiutano la destra”.
Oggi il gioco si è fatto un po’ più raffinato e si è entrati nel tecnico. Ma tra verità e mezze verità si è anche sfiorato l’autogol. Perché “la fonte” fa correttamente notare che un ruolo di Conte c’è stato e pure rilevante, nella fase in cui – tra aprile e luglio 2020 – si discuteva sull’entità delle risorse da mettere a disposizione.
Sta di fatto che – come ammesso dalla stessa fonte – si entrò nel conclave con un’ipotesi di 500 miliardi di sussidi e 250 di prestiti e se ne uscì con 390 (in effetti poi solo i 312,5 del dispositivo di ripresa e resilienza sono quelli che contano) di sussidi e 360 di prestiti. Non proprio un successone. Non parliamo poi del “successo” sulle regole che avrebbero governato l’erogazione e la gestione di quel denaro. La cui scarsa efficacia e macchinosità abbiamo sperimentato sulla nostra pelle, quando il governo Meloni ha dovuto attendere lo scrutinio della Commissione per ben 10 mesi prima di incassare nell’ottobre 2023 la terza rata del Pnrr, richiesta a dicembre 2022.
Non convince nemmeno la tesi del ruolo italiano nella scelta della UE di consentire “uno strumento di debito comune emesso da un’istituzione della UE” per finanziare quei sussidi e quei prestiti. Pare che fino ad allora fosse la “parola proibita”. Ma non è così. Dov’è la novità? Da nessuna parte. La UE aveva già emesso in passato dei bond per piccoli programmi di spesa. Poi qualche mese prima, a marzo, aveva consentito a un programma di prestiti (SURE) agli Stati membri per circa 100 miliardi, finanziato emettendo titoli. Ma ancora prima, il Mes era emittente di titoli garantiti pro-quota dagli Stati membri, così come la Bei. Nulla di nuovo sotto il cielo. La UE ha ripetuto quanto già fatto da altre istituzioni europee emettendo titoli garantiti pro-quota dagli Stati membri, attraverso uno specifico obbligo di apportare maggiori contributi al bilancio UE (0,6% del reddito nazionale lordo, oltre al 1,4% di base per il bilancio pluriennale). Nessun miracolo. I vagheggiati Eurobond o Coronabond, come li chiamarono all’epoca, non sono mai esistiti, perché prevedono la responsabilità non separata ma anche solidale di ogni Stato per l’intero debito. E ciò non è possibile, né con i Trattati attuali e né è consentito dalla Costituzione tedesca.
Inoltre, per dirla tutta, pochi mesi prima del lockdown era in fase avanzata di gestazione il progenitore del NextGenerationUE, che occupò gran parte delle riunioni dell’Eurogruppo e del Consiglio Europeo lungo tutto il 2019. Si chiamava strumento di bilancio per la convergenza e la competitività (BICC) ed intendeva fare più o meno le stesse cose del suo successore varato a luglio 2020, seppure finanziato solo dal bilancio UE. Anche qui la “fonte” dimostra una memoria selettiva.
Infine la vicenda dell’algoritmo (spiegato qui). È vero fu solo una formula – ovviamente discussa e negoziata a livello tecnico – a determinare la quota italiana (69 miliardi su 312) dei sussidi. Ma anche per quella somma c’è poco da vantarsi. Conte e la sua “fonte” dovrebbero spiegare come mai, pur essendo l’economia della Spagna pari al 70% di quella italiana, a Madrid siano arrivati quasi 70 miliardi di sussidi.