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Milano Terza Sede Brevetti

C’era un volta la Milano asburgica

Il bloc notes di Michele Magno Monza, 17 agosto 1840: la folla radunata davanti alla stazione ferroviaria è quella delle grandi occasioni. Stava per essere inaugurata la prima linea ferroviaria del Lombardo-Veneto. Assistono alla cerimonia tutte le massime autorità del Regno. Dalla vicina Villa Reale, residenza estiva della corte, sono venuti l’arciduca Ranieri, viceré e…

Il bloc notes di Michele Magno

Monza, 17 agosto 1840: la folla radunata davanti alla stazione ferroviaria è quella delle grandi occasioni. Stava per essere inaugurata la prima linea ferroviaria del Lombardo-Veneto. Assistono alla cerimonia tutte le massime autorità del Regno. Dalla vicina Villa Reale, residenza estiva della corte, sono venuti l’arciduca Ranieri, viceré e zio dell’imperatore, e la consorte Maria Elisabetta di Savoia con i figli. Seguito da una folta schiera di prelati, c’è il conte austriaco Karl Kajetan von Gaisruck, cardinale e arcivescovo di Milano. Lo chiamavano il “prete todescone”, ed erano celebri le sue gaffe dovute a un pessimo italiano. “Tutte pelle, tutte vache!” aveva esclamato a un ricevimento rivolgendosi alle gentildonne presenti. In realtà, voleva fare un complimento: “Tutte belle, tutte vaghe!”. Ma era considerato dai suoi diocesani un brav’uomo.

Ovviamente, non potevano mancare le autorità civili e militari di ogni ordine e grado, affiancate dai rampolli delle più illustri famiglie aristocratiche lombarde. Solo l’imperatore Ferdinando era rimasto a Vienna, ma era presente in ispirito. Gli viene perciò tributato un pensiero riverente nei discorsi di rito e si cantano inni in suo onore. A Milano Ferdinando c’era stato in visita ufficiale un paio d’anni prima, nel 1838, per essere incoronato nella cattedrale gotica re del Lombardo-Veneto con la corona ferrea dei sovrani longobardi. Purtroppo per lui, la sua figura mal si prestava a rappresentare la maestà imperiale: mite, insignificante, gracile di corpo e seminfermo di mente. Ma non era un problema. A reggere le sorti dell’impero ci pensava l’onnipotente cancelliere von Metternich, e proprio sotto i suoi auspici era stata realizzata la “imperial-regia strada ferrata Milano-Monza” dalla ditta Holzhammer di Bolzano.

La locomotiva Lombardia -scrive un cronista dell’avvenimento- “pavesata di vessilli e festoni, traina un convoglio di tre carrozze sulle quali, hanno preso posto l’Arciduca, l’arcivescovo, tutte le autorità, una scorta militare d’onore e una banda militare. Il percorso, di km 12,8, viene coperto in soli 19 minuti, realizzando una media di 40,4 km/ora, di gran lunga superiore a quella delle più veloci carrozze a cavalli. A Milano, alla stazione di Porta Nuova al Ponte delle Gabelle, il treno è accolto con travolgente entusiasmo; a breve distanza, giunge un secondo convoglio (con le autorità minori, e con una seconda banda militare) trainato dalla locomotiva Milano”. A differenza della prima ferrovia italiana (la Napoli-Portici del 1839), di progettazione francese, la ferrovia lombarda fu ideata dall’ingegnere milanese Giulio Sarti, figura di geniale costruttore e imprenditore.

L’opera non deluse le aspettative, e si rivelò subito un importante volano di crescita economica e dell’occupazione. Rotaie, carrozze, macchinari, erano tutti fabbricati nelle officine lombarde. Come lombarde erano le mestranze impegnate nella costruzione delle due stazioni. Quella di Milano-Porta Nuova era un edificio a due piani che ricorda il Teatro alla Scala, con frontone triangolare e una lunga balconata. A Monza era a un piano solo, fedele ai canoni neoclassici degli architetti Giuseppe Piermarini e di Luigi Cagnola. Il 18 agosto la “Privilegiata”, come era soprannominata,  viene aperta al pubblico. La tariffa di andata e ritorno era di 1,50 lire austriache per la prima classe, di 1 lira per la seconda, e di 0,75 per la terza. Quattro le corse giornaliere. Media del traffico giornaliero nei primi mesi di esercizio: più di mille e duecento passeggeri. Alla fine del primo anno il bilancio si era chiuso con un attivo di ben centomila lire. Un successo che incoraggia la realizzazione di un altro e più ambizioso  progetto: quello della linea “Ferdinandea”, che doveva collegare tra loro Milano e Venezia.

Il territorio di tutto l’immenso impero asburgico sarà attraversato nel giro di pochi decenni dalle lunghe linee nere delle ferrovie. Nel clima metternichiano della Restaurazione nasce un nuovo retorico trionfalismo: la ferrovia diviene un simbolo della volontà imperiale di ristabilire la pace e la concordia fra i popoli (una pregevole rivista di storia e geopolitica, Etnie, ha dedicato a questo argomento un saggio esemplare). Passata la bufera napoleonica, Milano era nominalmente una delle due capitali del Regno Lombardo-Veneto nato dal Congresso di Vienna (novembre 1814-giugno 1815), ma di fatto restava una sede periferica del governo di Vienna. Dal 1814 al 1859, anno della sconfitta austriaca sui campi di Magenta, vi furono quattro moti insurrezionali contro la dominazione asburgica, incluse le memorabili Cinque Giornate (18-22 marzo 1848).

Fu però anche un mezzo secolo di progresso tecnico e civile, raccomandato con fervore dallo stesso Carlo Cattaneo, che farà della Lombardia una delle regioni più avanzate d’Europa. È allora che vedono la luce le prime filande a vapore, le tessiture; e si sviluppa, accanto a quella ferroviaria, una moderna rete stradale e di vie d’acqua navigabili. Il 9 novembre 1831 fa la sua comparsa a Milano il primo battello a vapore proveniente dall’Adriatico, l’Otello, che aveva risalito il Po sino a Pavia. In città, fin dal 1820 l’illuminazione con le lampade Argand soppianta quella con le vecchie lanterne a petrolio; nel 1841 inizia il servizio degli omnibus a cavalli; nel 1845 esordisce l’illuminazione a gas, con 377 “becchi” (lampioni) in funzione per tutta la notte. L’anno precedente erano stati collaudati i primi impianti per la distribuzione di acqua potabile. Parallelamente, mutano costumi e stili di vita. I caffè, sempre più numerosi, diventano luoghi di relazioni sociali e intellettuali esclusive. Con l’inaugurazione dei Bagni Diana a Porta Orientale, nel 1842, Milano ha anche la sua prima piscina pubblica, fatto impensabile durante la monarchia di Maria Teresa d’Austria.

La Rivoluzione francese e l’età napoleonica non erano passate senza traccia, cosi come non erano stati scritti invano i versi di Giuseppe Parini, le opere di Cesare Beccaria e i sonetti in dialetto di Carlo Porta. La nobiltà non è più una casta chiusa, e le aperture ai ceti industriali e mercantili sono sempre più frequenti: nei salotti, nei palchi della Scala, negli inviti alle feste a Palazzo Reale, nei pubblici impieghi, nell’esercito. Il rimescolamento delle carte tra le classi sociali si rispecchia anche nella moda: scomparsi gli abiti sgargianti e ricamati d’oro, cestinate le parrucche, gli spadini e le scarpette dalle fibbie d’argento, non è più possibile distinguere dall’abito un nobile da un borghese agiato. Le carrozze dorate e stemmate hanno lasciato il posto a vetture eleganti ma sobrie, discrete, di colori tendenti allo scuro. Continua la gaia mondanità del passeggio in carrozza lungo il corso di Porta Orientale (oggi Corso Venezia) e lungo i bei viali alberati sistemati sui bastioni, ma l’ostentazione del fasto è assai meno vistosa e tracotante che in passato.

Anche l’edilizia cittadina segue a modo suo il mutare del costume. La Milano austriaca nella prima metà dell’Ottocento vede tanti piccoli ma significativi mutamenti del suo aspetto urbano. Il Duomo, con la sua fronte finalmente compiuta, si affaccia su una piazza bonariamente dimessa. Sono stati ormai scacciati tutti i banchetti di venditori ambulanti, ma rimangono davanti all’edificio, sulla destra, l’ingombrante isolato detto del Rebecchino che ospita l’albergo omonimo e molte case popolari. E  sul lato opposto, dove ora sorge la Galleria, il pittoresco “coperto dei Figini”, edificio porticato che ospitava una lunga successione di botteghe, bottiglierie e “offellerie” (pasticcerie). L’edilizia privata è sottoposta alla disciplina del “pubblico decoro” introdotta dalla napoleonica “Commissione di ornato”. Si fanno più eleganti le case borghesi, meno vistosi i palazzi patrizi, con la stessa tendenza al livellamento che mostrano gli abiti, le carrozze e gli stessi gusti alimentari. È allora che assumono la loro fisionomia signorile le quiete strade del centro cittadino.

Con la Restaurazione, inoltre, torna in auge la religione. Gli osti che danno da mangiar di grasso il venerdì o in tempo di quaresima sono puniti (decreto del 6 giugno 1828) con multa da cinque a dieci fiorini, o con la prigione da cinque a venticinque giorni. Beninteso, non è più il tempo dell’Inquisizione e dei processi alle streghe, ma nemmeno quello dei giacobini bestemmiatori e dissacratori. Vengono ripristinate diverse istituzioni religiose soppresse in epoca napoleonica, e ne sorgono nuove che gestiscono soprattutto attività caritatevoli e di assistenza ai poveri: il grande ospedale Fatebenesorelle a Porta Nuova, fondato su lascito della contessa Laura Ciceri Visconti; diversi asili per l’infanzia, ricoveri per i vecchi, una casa per “giovinetti discoli”, un istituto di riabilitazione per gli ex carcerati.

Si costruiscono nuove chiese e soprattutto si procede al recupero di molti luoghi di culto sconsacrati o fatiscenti. Vengono restaurate le basiliche di San Simpliciano e Sant’Ambrogio, la chiesa del Carmine e molte altre. Tra la nuova piazza di San Carlo e quella di San Babila viene costruito nel 1832 un singolare edificio, destinato a divenire un polo molto attivo nella vita cittadina. È la galleria De Cristoforis (così chiamata dal nome dei proprietari), dell’architetto Andrea Pizzala: un avveniristico passeggio coperto da vetrate che ospita caffè e negozi eleganti, un vero salotto cittadino anticipatore dell’attuale Galleria. Sarà demolito integralmente sul finire del secolo. Significativa la scritta che campeggiava all’ingresso della galleria: “Al commercio, al comodo, e al decoro pubblico, questa galleria vetriata i De Cristoforis eressero col disegno dell’Arch. Pizzala”.

Le barricate del 1848 sconvolgono questo mondo tranquillo e beneducato, amante del “commercio, del comodo, e del decoro”. La rivoluzione scoppia a Milano come a Vienna, a Budapest, a Parigi, facendo scricchiolare non solo il trono vetusto degli Asburgo ma anche quello borghese del re di Francia Luigi Filippo. Dopo il 1848 cambiano molte cose a Milano. Non c’è più il viceré ma un governatore militare: è l’odiato e temutissimo feldmaresciallo Joseph Radetzky, l’eroe nazionale che aveva sconfitto i piemontesi sui campi di Novara. Anche a Vienna tutto è cambiato. È stato congedato Metternich, emblema di un mondo che i popoli non accettano più. Ha abdicato l’inetto Ferdinando, sostituito dal giovane nipote Francesco Giuseppe, che sarà testimone della dissoluzione dell’impero austro-ungarico. “Abbiamo fallato tutti”, ammoniva Radetzky prendendo possesso della sua carica.

Sono parole equilibrate che esprimono la personalità di un capo militare inflessibile e spietato nella sua devozione all’assolutismo asburgico, e tuttavia animato da un sincero desiderio di pacificazione, diversamente da come lo ha descritto certa storiografia risorgimentale. Sia Radetzky che il suo successore, l’arciduca Massimiliano, falliranno la prova. Il fratello di Francesco Giuseppe, subentrato nel 1857 all’ultranovantenne feldmaresciallo, prova a lanciare un appello a tutti i lombardi per una cessazione delle ostilità. Nonostante l’adesione di un insospettabile patriota come Cesare Cantù, già condannato ed esiliato politico, l’appello cadrà nel vuoto. Massimiliano viene richiamato a Vienna nel febbraio 1859, alla vigilia della Seconda guerra d’indipendenza. Il pensionato Radetzky invece non lascia Milano, città che amava profondamente e dove si era formato una famiglia. Abitava in via Brisa con Giuditta Meregalli, la moglie morganatica che gli aveva dato diversi figli. Tutte le mattine andava a piedi al Castello, tenendo nel taschino una scorta di soldoni di rame da distribuire ai suoi “poferetti”, i mendicanti che, conoscendo le sue abitudini, lo aspettavano al varco.

Dopo il ritiro si trasferisce con tutti gli onori alla Villa Reale ai Boschetti (la ex residenza prediletta di Eugenio Beauharnais), dove muore il 5 gennaio 1858. Le sue esequie furono celebrate solennemente nel Duomo dieci giorni dopo. Erano giorni rigidissimi, ma non fu il freddo ad allontanare i milanesi dal rito funebre. Il freddo era ormai negli animi: il banco riservato al consiglio comunale rimase deserto, a cominciare dal seggio del podestà. Un anno e mezzo dopo, l’8 giugno 1859, Napoleone III e Vittorio Emanuele II entravano a Milano con le loro truppe vittoriose dopo la battaglia di Magenta. I milanesi li accolsero con applausi scroscianti quando apparvero sul balcone di Palazzo Serbelloni in corso Venezia. Era lo stesso balcone da cui si era affacciato sessantatré anni prima, il 15 maggio 1796, il cittadino generale Bonaparte, vincitore della battaglia al ponte di Lodi. Anche allora tra il tripudio della folla.

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