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Movimento

Che cosa s’inventa M5S fra rancori e astruserie

Il commento di Gianfranco Polillo

Giunti al giro di boa della legislatura, Luigi Di Maio è tornato alle origini. Dismesso l’abito blu da statista (si fa per dire), ha indossato l’eskimo del combattente anti sistema. Tagliamo prima 345 parlamentari ha continuato a ripetere. Per risparmiare 500 milioni. Non parla di una riforma costituzionale più che discutibile, vuole soltanto 345 scalpi da agitare nelle piazze del rancore. Per farlo è costretto a ricorrere ad una piccola bugia. Quei conti non stanno in piedi. I risparmi annuali possibili sono molto meno della cifra indicata. Basta fare una semplice divisione, per scoprire che quell’importo si riferisce alla sommatoria di 5 anni di attività parlamentare, sempre che l’ipotesi di un costo medio per parlamentare, intorno ai 300 mila euro all’anno, sia realistica.

Il risparmio annuale dovrebbe, quindi, essere ridotto ad un quinto (100 milioni) della cifra sbandierata. Per carità una somma comunque significativa, se a quel taglio si fosse accompagnata una revisione profonda di meccanismi arrugginiti, che impediscono all’Italia di respirare. Operazione complessa, che avrebbe richiesto quel livello di conoscenza e di preparazione che i 5 stelle hanno dimostrato, sul campo, di non possedere. Hanno fatto pertanto l’operazione più semplice: il taglio delle teste, per colpire una “vecchia casta”, già decimata dalle ultime elezioni.

Non si sono resi conti del fatto che, oggi, esiste una ”nuova“ casta. Che proviene dalle loro file. Frutto di una riffa elettorale, in cui il merito personale era solo un semplice optional. “Uno vale uno”. Basti guardare alle caratteristiche del personale politico mandato al Governo: da Danilo Toninelli ad Alfonso Bonafede. Entrambi attivisti del movimento. Gli altri, invece, a partire dal Presidente del consiglio, Giuseppe Conte, selezionati secondo criteri che poco o nulla avevano a che fare con il mondo della politica. E per questo non eletti. Il braccio e la mente: verrebbe da dire. Con un’ulteriore contraddizione: la crisi è maturata sulla scelta della Tav. Che il Presidente del consiglio, seppure con tentennamenti e lacerazioni, è stato, alla fine, costretto ad avallare.

Il gelo che, in Senato, ha accolto il voto delle diverse mozioni — altro errore del Movimento — ha messo in luce, se mai bene fosse ancora bisogno, l’essenza di una cultura minoritaria, che le proposte ultime di Di Maio — quella sui parlamentari — non fa altro che riproporre. Mostrando una differenza siderale dai rovelli e dalle angosce di milioni d’Italiani. Ma chi se ne frega di risparmiare 100 milioni all’anno, se l’economia è inchiodata. La disoccupazione, specie giovanile, non dà segnali di miglioramento. Se il Mezzogiorno d’Italia é tornato, nuovamente, ad essere terra di fuga e di emigrazione. E se l’Europa non solo sta a guardare, ma vorrebbe imporre politiche che, invece di risolvere problemi così drammatici, rischiano di aggravarli. Senza peraltro ridurre di un cent la dinamica del debito pubblico.

Lasciamoli quindi cuocere nel loro brodo. La prossima campagna elettorale deve essere l’occasione per mettere a confronto strategie e programmi, che parlino agli italiani. Che affrontino il tema del loro disagio e forniscano ipotesi di soluzioni. Lo stesso rapporto con l’Europa deve uscire dalle secche del rifiuto pregiudiziale o della subalternità. L’Italia è ancora un grande Paese: un po’ più acciaccato rispetto al passato. Ma, francamente, non ha colpe da espiare né peccati da confessare.

Del resto nei dieci anni che ci separano dalla crisi del 2008, quei condizionamenti li abbiamo più che subiti. Abbiamo mostrato pazienza e rassegnazione, anche quando quelle ricette erano tutt’altro che convincenti. Il risultato di quello sforzo è sotto gli occhi di tutti. Il Paese è più piccolo ed impoverito. Il rapporto debito — Pil non solo non si è stabilizzato, ma è aumentato di oltre il 30 per cento, rispetto al 2007. Quando nei 5 anni precedenti, grazie ad una diversa impostazione programmatica, era, seppur di poco, diminuito, scendendo sotto il 100 per cento del Pil. Che altro deve succedere per prendere atto che siano necessari, anzi indispensabili, cambiamenti “veri”? Che non siano le fumose teorie della “decrescita felice”: porto d’approdo di tanti disperati alla ricerca dell’”isola che non c’è”.

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