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Bcc, ecco come la Lega di Salvini vuole azzoppare la riforma delle banche di credito cooperativo

“Si stima che le banche di credito cooperativo saranno costrette a reperire nuovi capitali in misura pari a circa 700 milioni di euro per il gruppo Cassa centrale e 1,8 miliardi per il gruppo Iccrea, o a ridurre sensibilmente l’offerta di credito”. E’ uno dei passaggi salienti dell’atto ispettivo presentato al Senato dal gruppo della…

“Si stima che le banche di credito cooperativo saranno costrette a reperire nuovi capitali in misura pari a circa 700 milioni di euro per il gruppo Cassa centrale e 1,8 miliardi per il gruppo Iccrea, o a ridurre sensibilmente l’offerta di credito”.

E’ uno dei passaggi salienti dell’atto ispettivo presentato al Senato dal gruppo della Lega, con la firma in primis di Matteo Salvini, Alberto Bagnai e Armando Siri. Obiettivo dell’iniziativa della Lega? Stoppare la riforma delle Bcc varata dal governo Renzi con gli auspici e le attese di Bce e Banca d’Italia.

L’atto punta alla “sospensione dei termini entro i quali dovranno essere costituiti i gruppi bancari cooperativi”.

Ecco i principali motivi alla base dell’iniziativa parlamentare della Lega che chiede al prossimo governo di impegnarsi sul tema.

Primo:”Non risulta pertanto alcuna evidenza empirica secondo la quale istituti di maggiori dimensioni siano più facilmente controllabili e più stabili e, tantomeno, che le sofferenze dei piccoli istituti mettano in pericolo la stabilità dell’intero sistema bancario del Paese”.

Secondo: “Le drammatiche vicende vissute dalle banche poste in risoluzione, da Monte dei Paschi di Siena così come dalle banche popolari venete, con le gravi ricadute sui risparmiatori, hanno dimostrato che la dimensione è tutt’altro che un requisito utile ad agevolare il controllo da parte degli enti preposti”.

Terzo: la riforma delle Bcc è “stata interessata da una deliberata eterogenesi dei fini: si sono abbandonati i principi di mutualità per far spazio alle ragioni del libero mercato, agevolando l’entrata, anche nelle banche di credito cooperativo, così com’è stato nelle banche popolari, di investitori, nazionali e non, ben poco interessati allo sviluppo e al sostegno del territorio e al tessuto delle piccole e medie imprese, fondamentale per l’economia del nostro Paese e strategico per la nostra capacità di competere in ambito internazionale”.

Quarto: con la riforma “si stima che le banche di credito cooperativo saranno costrette a reperire nuovi capitali in misura pari a circa 700 milioni di euro per il gruppo Cassa centrale e 1,8 miliardi per il gruppo Iccrea, o a ridurre sensibilmente l’offerta di credito”.

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ECCO DI SEGUITO L’ATTO ISPETTIVO DEL GRUPPO DELLA LEGA DATATO 2 MAGGIO:

il 3 maggio 2018 scade il termine per la presentazione della domanda di costituzione dei nuovi gruppi bancari cooperativi in base a quanto stabilito dalla riforma contenuta nella legge n. 49 del 2016, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge n. 18 del 2016, che ha prescritto un periodo di 18 mesi a decorrere dall’entrata in vigore delle disposizioni di attuazione stabilite dalla Banca d’Italia, emanate il 3 novembre 2016;

la normativa di risulta tra la legge nazionale e quella applicativa è molto complessa: il 3 maggio è la data in cui si dovrà presentare la domanda di costituzione, tramite invio del contratto di coesione e degli statuti delle banche aderenti, e la domanda di iscrizione del nuovo gruppo cooperativo all’albo dei gruppi bancari. La costituzione vera e propria dei gruppi seguirà poi il particolare scadenzario stabilito dalla Banca d’Italia nella circolare n. 285 (del 17 dicembre 2013, 19° aggiornamento);

il citato decreto-legge ha previsto, tramite l’introduzione dell’articolo 37-bis nel decreto legislativo n. 385 del 1993 (testo unico bancario), che i citati gruppi bancari cooperativi siano composti da una società per azioni capogruppo, le banche di credito cooperativo e le società bancarie controllate dalla capogruppo. La riforma ha sconvolto il precedente panorama del settore cooperativo, ridisegnando un sistema formato da piccole realtà territoriali e sostituendolo con un’unica holding che, oltre a perdere il carattere di mutualità e cooperazione, garantiti dall’articolo 45 della nostra Costituzione, non riuscirà nemmeno a replicare modelli presenti in altre nazioni europee per evidenti disparità dimensionali;

gruppi olandesi, francesi o tedeschi costituiti in holding di banche di credito cooperativo sono da 50 a 60 volte più grandi della dimensione ipotizzata per i costituendi gruppi bancari cooperativi italiani. In questo modo è dunque probabile che si genererà un ibrido che perderà le caratteristiche specifiche della cooperazione nel settore creditizio, tese a valorizzare le specificità locali, culturali, socioeconomiche dei diversi territori italiani, ma che, nel contempo, non sarà in grado di paragonarsi ad omologhi gruppi con cui confrontarsi nel mercato creditizio mondiale;

l’unica garanzia di difesa del territorio, concessa in sede di conversione del decreto-legge, riguarda la possibilità di creare eventuali sottogruppi territoriali; per le province autonome di Trento e Bolzano è stato invece stabilito che le banche di credito cooperativo aventi sede legale nelle stesse potessero costituire autonomi gruppi bancari cooperativi composti solo da banche aventi sede (ed operanti esclusivamente) nei medesimi territori, tra cui la corrispondente banca capogruppo, la quale può adottare anche la forma di società cooperativa per azioni a responsabilità limitata; di questa opportunità hanno approfittato solo gli istituti Raiffeisen della provincia autonoma di Bolzano, mentre nella provincia autonoma di Trento si è scelto di dar vita a un gruppo di livello nazionale, Cassa centrale Banca;

la relazione illustrativa di accompagnamento alla legge di conversione recitava che, a causa di “talune debolezze strutturali”, degli “assetti organizzativi” e della “dimensione ridotta” delle banche cooperative, si rendeva necessario superare l’ostacolo di alcuni “tratti costitutivi della forma giuridica cooperativa in quanto tale”, prevedendo “l’obbligatoria appartenenza a un gruppo bancario cooperativo”, la cui capogruppo si costituisse in forma di società per azioni “al fine di favorire l’accesso al mercato dei capitali e alla patrimonializzazione”. Si attestava, altresì, che una simile ristrutturazione non avrebbe in alcun modo alterato la qualificazione delle Banche di credito cooperativo in qualità di cooperative a mutualità prevalente;

non si può certo negare che una simile impostazione provenga dalle tesi allora maggioritarie sviluppate dalla Banca d’Italia in merito alla convinzione che sia impossibile vigilare correttamente su piccole entità bancarie. Su questo punto, Carmelo Barbagallo, capo del Dipartimento della Vigilanza bancaria e finanziaria della Banca d’Italia, in sede di audizione presso la VI Commissione permanente della Camera dei deputati, il 9 dicembre 2015, espresse una posizione nettamente favorevole ad operazioni di concentrazione, soprattutto per le banche di medie e piccole dimensioni. La tesi è stata poi ulteriormente confermata in sede di audizione sul decreto-legge, il 1° marzo 2016, in cui lo stesso ha confermato che: “nella prolungata fase di crisi economica, l’aumento della rischiosità dei prenditori e la stasi delle erogazioni hanno eroso i profitti rendendo più vulnerabili le BCC, caratterizzate da dimensioni contenute e da una operatività concentrata in ambiti territoriali ristretti”, ripercuotendosi sulle possibilità di diversificazione del rischio;

le drammatiche vicende vissute dalle banche poste in risoluzione, da Monte dei Paschi di Siena così come dalle banche popolari venete, con le gravi ricadute sui risparmiatori, hanno dimostrato che la dimensione è tutt’altro che un requisito utile ad agevolare il controllo da parte degli enti preposti. Proprio nei confronti delle popolari venete, che erano nel novero dei 5 maggiori istituti di credito del Paese, Banca d’Italia e CONSOB hanno dimostrato, a giudizio dei proponenti del presente atto di indirizzo, gravi carenze nell’adempiere al loro ruolo istituzionale di vigilanza e tutela;

non risulta pertanto alcuna evidenza empirica secondo la quale istituti di maggiori dimensioni siano più facilmente controllabili e più stabili e, tantomeno, che le sofferenze dei piccoli istituti mettano in pericolo la stabilità dell’intero sistema bancario del Paese;

all’epoca dell’emanazione del decreto-legge, in Italia, le banche più piccole avevano 17 miliardi di euro di sofferenze a fronte dei 39 miliardi delle banche più grandi e dei 133 miliardi delle prime 5 banche, con un credito erogato che, per le banche di medie e piccole dimensioni, si attestava tra i 156 e 178 miliardi di euro;

non si sono quindi comprese a fondo le ragioni di una simile riforma quando anche la Banca d’Italia confermava la gestione più prudenziale delle “banche di minore dimensione, in prevalenza di credito cooperativo, anche per effetto del peso più elevato delle garanzie sui prestiti (79,8 per cento a fronte di una media di sistema del 66,5)”;

a giudizio dei proponenti sembra essere scontato, dunque, che tutta questa riforma sia stata interessata da una deliberata eterogenesi dei fini: si sono abbandonati i principi di mutualità per far spazio alle ragioni del libero mercato, agevolando l’entrata, anche nelle banche di credito cooperativo, così com’è stato nelle banche popolari, di investitori, nazionali e non, ben poco interessati allo sviluppo e al sostegno del territorio e al tessuto delle piccole e medie imprese, fondamentale per l’economia del nostro Paese e strategico per la nostra capacità di competere in ambito internazionale;

anche facendo riferimento alla crisi americana dei prestiti o mutui subprime si è sempre affermato di dover evitare ad ogni costo il rischio del moral hazard che si può sviluppare nelle grandi banche in ragione del principio “too big to fail”. Al contrario, nel nostro Paese, si sono volute accorpare le piccole banche, quelle che, per quanto evidenziato, non sono suscettibili di creare grandi shock al sistema;

ancora, la scelta del limite minimo di un miliardo di patrimonio netto per la capogruppo annulla del tutto la valenza territoriale del sistema mutualistico, postulando necessariamente la creazione di due grandi holdingnazionali e una provinciale, governate in modo verticistico. Da quanto si apprende, infatti, si sta andando verso la creazione di un’unica holding nazionale (il polo romano di Iccrea), affiancata solamente dalla trentina Cassa centrale Banca e dall’altoatesina Raiffeisen, in cui devono confluire le circa 280 banche di credito cooperativo oggi esistenti;

la richiesta presentata nelle scorse settimane da Raiffeisen per la costituzione di un gruppo bancario provinciale è già stata avanzata, mentre, per Iccrea e Cassa centrale Banca, il processo in vista della presentazione delle istanze di costituzione dei due gruppi significativi pare essere più indietro;

la prossima conseguenza, già paventata all’epoca della riforma, sarà il forte condizionamento che simili gruppi eserciteranno sulla libertà di azione e sull’autonomia delle banche di credito cooperativo in sede locale, come pure quello derivante dalla vigilanza europea: Iccrea e Cassa centrale Banca, che da sole raggrupperanno circa 260 banche, saranno infatti sottoposte alla vigilanza unica con la sottoposizione al Comprehensive assesment della Banca centrale europea, che comprende la verifica degli attivi (asset quality review) e gli stress test;

in conseguenza di questa modifica, si stima che le banche di credito cooperativo saranno costrette a reperire nuovi capitali in misura pari a circa 700 milioni di euro per il gruppo Cassa centrale e 1,8 miliardi per il gruppo Iccrea, o a ridurre sensibilmente l’offerta di credito;

per questa ragione, nel mese di dicembre 2017, la Banca d’Italia ha inviato un documento alle 260 banche di credito cooperativo interessate in cui si richiede di allinearsi “al più presto” alle linee guida delle due capogruppo al fine di prepararsi al prossimo vaglio della vigilanza europea, dato che circa un terzo delle banche di credito cooperativo italiane sarebbe considerato ad alto rischio e un altro quarto mediamente a rischio;

al riguardo è il caso di ricordare come, in Germania, le Sparkassen e le Volksbanken tedesche non rientrino invece pienamente nella normativa europea, non soltanto per quanto riguarda i requisiti di capitale e liquidità, ma anche per quanto riguarda la vigilanza europea. Secondo la Bundesbank, le banche territoriali tedesche che non rientrano sotto la vigilanza unica sono oltre 1.500, pari all’88 per cento degli istituti di credito tedeschi, e gestiscono circa il 44 per cento dei prestiti erogati dall’intero settore bancario, che quindi non sono soggetti alla vigilanza unica europea. In particolare, su 431 Sparkassen tedesche, sola una è vigilata dalla BCE (e si consideri che in totale queste contano per il 22,3 per cento degli impieghi bancari). Va notato che in Italia la percentuale di crediti non soggetti alla vigilanza unica è molto inferiore, aggirandosi attorno al 20 per cento, e la riforma delle banche di credito cooperativo ridurrebbe questa percentuale di almeno altri 7 punti, portando virtualmente tutto il nostro sistema bancario sotto la vigilanza unica, mentre il 44 per cento di quello tedesco viene vigilato dall’autorità nazionale (il Bafin). Questo perché all’epoca della costruzione del primo pilastro, ossia della vigilanza unica, le grandi banche tedesche, il cui numero è relativamente ridotto, hanno beneficiato della fissazione a 30 miliardi di asset quale livello minimo, mentre, per le piccole banche, sono stati tenuti fuori dalla vigilanza unica i cosiddetti IPS (institutional protection schemes), ossia i sistemi di mutua protezione e garanzia tra le banche associate, che differiscono sia dai gruppi che dai network bancari, ampiamente diffusi in Germania (Sparkassen e Volksbanken) e Austria (banche Raiffeisen);

in Italia, invece di ricorrere agli IPS, con i privilegi che essi garantiscono e dei quali le banche dei concorrenti godono, si è scelto di azzerare un patrimonio territoriale che anche Federcasse, seppur all’epoca grande sostenitrice della riforma, considerava invece necessario tutelare in virtù delle “particolari forme di coesione ed organizzazione a livello territoriale”;

come già detto, queste ultime sono state riconosciute alle sole province autonome di Bolzano e Trento, ignorando le altre peculiarità, linguistiche, socioeconomiche e culturali, che rappresentano, invece, una peculiarità e un importante valore aggiunto dell’intero Paese. Seppur riconosciuta la necessità di salvaguardare il patrimonio mutualistico delle province autonome, non si comprende perché le stesse non debbano essere riconosciute a tutte le regioni e province italiane;

tali argomentazioni, già ampiamente discusse durante l’esame del decreto-legge nelle assemblee parlamentari, sono ancora oggi attuali e cogenti. All’approssimarsi della scadenza sono ancora molte le voci che chiedono una revisione della riforma: il presidente dell’Associazione generale cooperative italiane (Agci), Brenno Begani, ha richiesto una fase “di ulteriore e necessaria riflessione sull’impostazione della riforma del credito cooperativo per salvaguardare la biodiversità bancaria e per non soffocare realtà fortemente radicate”. Spiega che l’assorbimento totale di tutte le banche di credito cooperativo italiane in grandi poli bancari, “con spazi limitati di autonomia rispetto alla Capogruppo, reca in sé il tangibile pericolo di declino dell’identità cooperativa e dei principi mutualistici nel settore del credito”. E continua che, in questo modo, si “rischia di non incentivare lo sviluppo socio-economico a livello locale e, più in generale, di non rendere onore al principio di meritocrazia, che imporrebbe di premiare e non di mortificare i più virtuosi, poiché proprio i soggetti sani hanno maggiore patrimonio libero e minori rischi in portafoglio”;

da ultimo, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, nelle risultanze preliminari dell’istruttoria in relazione al procedimento in materia di operazioni di concentrazioni avviato il 14 marzo 2018 nei confronti della società del gruppo Raiffeisen (procedimento C12138), ha rilevato che “le quote di mercato che saranno detenute dal costituendo gruppo Raiffeisen non appaiono scevre dal sollevare criticità concorrenziali in termini di costituzione ovvero rafforzamento di posizioni dominanti in alcuni dei mercati locali”. Infatti, la detenzione delle quote evidenziate “appare comunque suscettibile di garantire al costituendo Gruppo un evidente vantaggio competitivo nei confronti dei concorrenti, permettendo allo stesso di operare in sostanziale autonomia”;

dunque, la riforma del credito cooperativo non soltanto ha creato una frattura nel sistema mutualistico delle banche locali, con le conseguenze economico-sociali che si stanno verificando nelle differenti territorialità del Paese, ma sembra anche violare, con tutta evidenza, le disposizioni di rango costituzionale del nostro ordinamento: da un lato, tali rischi di concentrazione, già paventati all’epoca dell’esame del decreto-legge, si stanno concretizzando e profileranno una violazione della normativa europea in materia del rispetto della concorrenza (artt. 101 e 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea); dall’altro, a livello interno, si sono violati differenti disposizioni e principi della nostra carta costituzionale;

innanzitutto, la disparità di trattamento per le province autonome, pur se fondato sul rispetto della diversità e delle minoranze, non trova uguale contemperamento nel rispetto del principio di uguaglianza con riguardo al diverso trattamento riservato al restante territorio nazionale. Quest’ultimo sembrerebbe anche violato dalla clausola del way out (possibilità, per gli istituti con un patrimonio netto superiore a 200 milioni di euro, di scorporare l’attività bancaria conferendola ad un istituto di credito costituito in società per azioni, corrispondendo all’erario un’imposta straordinaria pari al 20 per cento dello stesso);

un’altra disposizione di dubbia costituzionalità, difficilmente conciliabile con il principio di libera iniziativa economica tutelata dall’art. 41 della Costituzione, sembrerebbe essere il divieto di trasformazione in banca popolare: in caso di esclusione dalla superholding, la banca di credito cooperativo può continuare la sua attività solo con l’autorizzazione della Banca d’Italia e la trasformazione in società per azioni, pena la liquidazione, ma è esclusa, com’era prima della riforma, la fusione con banche di diversa natura da cui risultino banche popolari;

quest’ultima norma è stata infatti attaccata da più fronti, perché inficerebbe gravemente la tutela dei depositanti, contrastando con l’articolo 47 della Costituzione, in merito alla tutela del risparmio, e con articolo 45, in merito alla tutela e alla promozione della cooperazione,

impegna il Governo a prendere le necessarie misure, anche di carattere normativo, al fine di prevedere una moratoria del termine di 18 mesi in scadenza il 3 maggio 2018 o, in ogni modo, al fine di prevedere la sospensione dei termini entro i quali dovranno essere costituiti i gruppi bancari cooperativi.

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